14 Febbraio 2022

Rinunciano alla democrazia?

Colpi di stato in 4 paesi dell’Africa Occidentale: il tradimento dei diritti umani, il consenso dei militari, la pressione generazionale dei millennials


«Tanto meglio, ora riprendiamo in mano il nostro destino». Il commento telefonico di Karim, 28 anni dalla capitale Ouagadougou, il giorno dopo il colpo di stato in Burkina Faso, non lascia margine d’interpretazione. E fa tornare in mente il giudizio di Youssuf, 31 anni, da un’altra capitale dell’Africa occidentale, Conakry, che commentava il golpe nella sua Guinea, quattro mesi fa, dicendo: «Il difficile viene ora, ma è lo stesso: l’importante è che lui se ne sia andato» (“lui”, in realtà un perfido nomignolo in lingua malakné, generosamente traducibile con ‘’vecchio facocero’’).

Golpe ravvicinati
Karim. Youssuf. E le testimonianze potrebbero continuare. Derivate da un elenco fattosi, negli ultimi mesi, significativamente fitto.

Mali, agosto 2020: deposto il presidente eletto Ibrahim Boubacar Keïta; poi, maggio 2021, il golpista Bah N’Daw a sua volta deposto da Assimi Goïta. Guinea, settembre 2021: il colonnello Mamadi Doumbouya depone l’eletto Alpha Condé, al suo terzo e incostituzionale mandato. Burkina Faso, gennaio 2022, il comandante Paul-Henri Sandaogo Damiba depone il doppiamente eletto Christian Kaboré. Somiglianze evidenti: ore di tensione, informazioni frammentarie, militari che appaiono alla Tv di stato dopo scontri limitati nei pressi dei palazzi che contano, rassicurazioni che il presidente è vivo agli arresti, in serata festeggiamenti di migliaia di persone, in capitale, con slogan, bandiere e foto del nuovo uomo forte. Nell’aprile 2021, in Ciad avvenne qualcosa di simile, disinvolta commistione fra golpe e successione dinastica: il generale Mahamat Idriss Déby, dopo l’inatteso attentato al presidente suo padre, ha annunciato la presa del potere, in piena illegalità costituzionale.

Ciad, una manifestazione pubblica dopo l’attentato costato la vita al presidente Déby


Il contesto: iniquità e corruzione
Mali, Burkina Faso, Guinea Conakry, lo stesso Ciad: in Africa Occidentale, e in generale in Africa, non si assisteva da tempo a un serie tanto folta di transizioni violente, o quanto meno, armate, del potere.

La regione vive da oltre due anni una svolta autoritaria. Non senza un tocco vintage, come è stato osservato: in paesi dalla lunga tradizione golpista, come fra gli anni ’70 e ’80, i militari rimpiazzano deboli governi civili, in balia d’eventi che li sovrastano. Ciò che c’è alla base del fenomeno è espresso in Tv dagli stessi militari nei loro annunci, che sono esplicite requisitorie: blocco istituzionale, corruzione, inefficienza, inerzia, abusi, sottosviluppo, servizi e sicurezza inesistenti. È come se la democrazia non avesse convinto, si fosse giocata male la sua possibilità, mentre altre alternative sembrano più accreditate.

Molti sono i fattori e le somiglianze fra Mali, Ciad, Guinea e Burkina Faso. Sono fra i paesi più poveri del mondo, rispettivamente al 184°, 187°, 178°, 182° su 189 in base all’Indice di Sviluppo Umano. Strutturalmente, e conseguentemente, sono anche tra i paesi più fragili del pianeta, con punteggi rispettivamente di 96,6, 105,8, 97,4, e 87,1 su 120. Gli indicatori socio-sanitari sono da sempre impietosi: in Mali, Ciad, Guinea e Burkina Faso, il tasso di mortalità infantile è di 62,31, 67, 60, 50.71 su 1.000; quello di mortalità materna 562, 1.140, 576, 320 su 100.000. L’alfabetizzazione sotto ai 15 anni in Mali si ferma al 35,5%, in Ciad al 22,3%; poco meglio in Guinea, 39,6%, e Burkina Faso 39,3%. La malnutrizione infantile sotto ai 5 anni in Mali è al 18,1%, in Ciad al 29,2%, al 16,3% in Guinea e al 16,4% in Burkina Faso. Non migliori gli indicatori economici: i buoni tassi di crescita – anche sopra al 6% – stridono con le percentuali di popolazione in estrema povertà (con entrate inferiori a 1,9 dollari al giorno): Mali 38%, Ciad 45%, Guinea 22%, Burkina Faso 34%.

La democrazia costituisce promessa di integrazione
e sviluppo: promessa da mantenere in tempi brevi,
e che richiede impegni chiari e risultati tangibili

Questi dati ribadiscono che la democrazia non è, come molti sostengono con poche evidenze, un lusso che si ottiene solo raggiunta una minima prosperità, ottima scusa per rimandarne la costruzione a un vago futuro. Ma essa rappresenta una promessa di equità, integrazione, sviluppo: promessa da mantenere in tempi brevi, e che richiede investimenti sostanziali, impegni chiari, risultati tangibili. Per l’Africa Occidentale la sfida è immane, ma l’esito si fa scontato se alla prova dei fatti le politiche attuate sono deludenti, quando non scandalose. Alla sbarra finisce dunque la caratteristica stessa dei governi civili deposti: la corruzione, invulnerabile alla democrazia e alla sua asserita trasparenza. L’Indice di trasparenza distribuisce punteggi imbarazzanti per il 2021: Mali (29/100, +60% sull’anno prima), Ciad (20/100), Guinea (25/100, +62%), Burkina Faso (42/100, +28%).

Contro le gerontocrazie
La promessa dello sviluppo è mancata. Ma il vero tradimento della democrazia, in questi paesi, è stato relativo ai diritti umani. Che la democrazia sia più affidabile nella difesa dei diritti, come nella garanzia di servizi essenziali, è un luogo comune che i fatti si incaricano di correggere. Il Burkina Faso era da tempo preda di semi-anarchia e sede di una guerra civile strisciante, fatta di abusi e violazioni; in Guinea il regime democratico ha attuato ogni tipo di violenza sulla popolazione, omettendo di difenderla contro gli abusi delle multinazionali del ferro; in Mali, la guerriglia dilagante impedisce da anni l’esercizio d’ogni diritto elementare. Semplificando, sembra che ipocriti semigolpisti autoritari vestiti da liberali – con un debole per i sermoni durante le cerimonie –, siano ora cacciati da golpisti professionisti, che almeno non mancano di una certa onestà linguistica.

Ulteriore inconfondibile somiglianza, il dato demografico. La questione giovanile agita l’Africa, con una gerontocrazia che resiste imperterrita. Mamadi Doumbouya in Guinea, 41 anni, ha messo da parte un 83enne, in un paese in cui il 60,5% della popolazione ha meno di 24 anni (età media 19,1). Assimi Goïta, in Mali, da poco 38enne, ha scalzato prima il 75enne Ibrahim Boubacar Keïta, poi il 71enne Bah N’daw, in un popolo con il 66,7% dei cittadini sotto 24 anni. Il 41enne Paul-Henri Damiba ha deposto il 65enne Kaboré, in Burkina Faso (età media 17,9, con il 63,91% sotto i 24). Infine in Ciad, dove il 67,2% ha meno 24 anni e l’età media è 16,1, il neanche 37enne Mahamat è letteralmete subentrato al padre. Chiare le valenze estetiche: soporiferi vecchi inefficienti scalzati da giovani entusiasti e scattanti che hanno l’età dei loro figli, talvolta dei loro nipoti (sotto gli occhi di milioni di adolescenti e neonati). Con simili mappature demografiche, è difficile credere che l’età media di nuova e vecchia guardia non spieghino qualcosa, e che il sostegno dimostrato dalla popolazione sia casuale.

Mali, fan del nuovo regime: la questione generazionale interpella la politica africana

Altro elemento chiaro: i militari riempiono un vuoto. I civili meglio formati, cosmopoliti e più istruiti, sono contesi da un mercato del lavoro che si è globalizzato al più alto livello: le multinazionali che operano nella regione, come le ong, offrono gratificazioni d’ogni tipo, e questo richiama al privato la meglio gioventù africana, che al richiamo risponde. Semplicemente, i civili non sono troppo interessati al potere politico. Coloro che vi si dedicano, sono mediamente poco preparati e motivati, attirati da rendite e prospettive d’arricchimento: un profilo che i partiti in elezione tendono fatalmente a reclutare. Nel contempo, la qualità intellettuale del ceto militare è in netto aumento, come in riduzione la sua età media. Se i militari sembrano un’opzione credibile, è perché spesso lo sono.

Eccellente formazione
Le analogie tra i paesi non nascondono chiare specificità e novità. A livello temporale, è un’illusione ottica che la storia si stia ripetendo. Quella che ha preso o sta prendendo il potere non è l’arrivista soldataglia d’un tempo: allora, i golpe erano attuati da ambiziosi militari dei ranghi bassi dell’esercito, poco formati nelle scienze militari, tanto meno preparati per guidare nazioni: è il caso di Guinea (1984 e 2008), Burkina Faso (1983 e 2015) e quasi sempre del Mali. Oggi, i nuovi uomini forti si distinguono per l’eccellenza della formazione accademica, le autorevoli recenti pubblicazioni, la professionalità ottenuta spesso nella Legione Straniera Francese e la partecipazione a formazioni d’elite del Dipartimento alla difesa americano, come la Flintlock nel 2019.

Un altro evergreen dei golpe del passato, la regia straniera(soprattutto francese), non regge l’esame della cronaca odierna. Il nuovo governo maliano è apertamente ostile alla politica francese, e sensibile all’insofferenza popolare contro l’esercito straniero. Il nuovo governo burkinabé, diversamente dal deposto Kaboré, è similmente vicino alle proteste popolari contro l’alleato. Parigi, in definitiva, non ha interesse nei cambiamenti in corso, così come non sembra avere una vera strategia regionale di lungo periodo, combattuta com’è fra necessità di restare nelle regione ed esigenza di una exit strategy, a 10 anni dell’arrivo dei suoi militari in Mali.

I “golpisti” in Guinea: i militari che hanno preso il potere non sono figuranti improvvisati

Differenze chiare, oltre che nel tempo, anche nello spazio. In Ciad, una datata paralisi istituzionale, scandita dall’inerzia delle magistrature costituzionali, si è sommata all’esigenza di rapidità d’azione, ad una successione forse già in programma e al bisogno di una certa continuità (in un contesto, del resto, già ben poco democratico). In Guinea, il presidente Condé aveva da anni sostituito la giovane democrazia con una ‘’democratura’’ dai tratti autoritari, fino alla personalizzazione del referendum per un terzo mandato, in un quadro di inefficienza, corruzione, decandenza. In Mali e in Burkina Faso, sulle cause economiche e politiche hanno prevalso invece le minacce alla sicurezza.

Regressione burkinabé
Il caso delBurkina Faso è il più preoccupante sul versante della retrocessione democratica. Se gli altri paesi hanno brevi storie democratiche, il Burkina Faso ha versato sangue nel 2014 con una rivoluzione per abbattere il regime di Compaoré (durato 27 anni), e ne versato d’ulteriore per salvarla dal golpe del 2015: il paese aveva insomma scelto con convinzione una democrazia, che ora mette da parte con la stessa decisione. All’origine della svolta, la vera urgenza del continente: la regione del Sahel Centrale – soprattutto Liptako Gourma – è da anni teatro d’attacchi jihadisti che hanno sottratto ai governi il controllo di buona parte del loro territorio.

Gli immensi spazi desertici, dove nessun sviluppo è possibile, al di fuori dell’agricoltura e dell’allevamento di sussistenza, vedono l’azione di gruppi di giovani combattenti, ex disoccupati e spiantati, ora ben pagati e armati, che terrorizzano la popolazione dei loro stessi villaggi, eseguendo continui massacri che non risparmiano nessuno, e facendo sparire intere comunità, fra uccisi e fuggiti. Dal 2015, 2 mila persone sono state massacrate, 300 mila bambini sono privati delle oltre 3 mila scuole chiuse perché target dei jihadisti, inoltre 1,5 milioni di persone (7% della popolazione) sono in fuga.

La scomparsa della sicurezza, in uno stato democratico incapace di contrattacco, pur affiancato dalla quinta potenza militare al mondo – la Francia dell’operazione “Barkhane” –, è causa di malcontento e odio crescenti. Nel frattempo, si fa chiara l’intenzione francese di ritirare le truppe, cosa già cominciata in Mali e in Burkina Faso. «Andrà come in Afghanistan – è il vaticinio di Karim al telefono –: dopo vent’anni d’occupazione americana, il governo democratico e l’esercito ‘’formato’’ si sono polverizzati in 24 ore di fonte ai telebani». I quali, pure, erano da sempre stati padroni del territorio fuori dalla capitale: «Non deve accadere qui: dobbiamo anticipare, dobbiamo agire prima!».

Il nuovo uomo forte del Burkina Faso, il comandante Paul-Henri Sandaogo

In Burkina, un ruolo centrale lo ha svolto la rabbia contro il governo Kabore: il golpe è una prosecuzione militare di proteste popolari, intense nei giorni precedenti. Da sempre ostile a un esercito del quale diffidava – vicino al regime di Compaoré e covo di revanscisti pronti a irrompere sulla scena politica –, il presidente ha costellato il doppio mandato di sostituzioni, riforme punitive, riduzione d’investimenti, cittadini in armi alternativi ai militari: vere e proprie umiliazioni, finché il 14 novembre 2021 ha stroncato moralmente la nazione con l’ennesimo massacro jihadista, stavolta contro i militari (53 uomini morti in un solo attacco). Da settimane i militari erano disarmati, abbandonati nel nord, senza munizioni e malnutriti, ridotti ad andare a caccia nelle pause per procurarsi cibo, mentre esplodevano scandali per l’appropriazione indebita di fondi destinati all’esercito.

I bisogni di popoli pratici
Da circa trent’anni, l’Africa è in trend democratico ascendente, con numerose seconde elezioni superate senza ostacoli e sistemi in via di consolidamento. Né il giubilo dopo i colpi di stato e l’assenza di manifestazioni di supporto ai deposti regimi e despoti sono prova di sostegno maggioritario: piuttosto, segno di stanchezza e bisogno di credere in un’alternativa. Nei paesi dell’Africa occidentale esaminati, la delusione è palpabile e la democrazia fonte di rimpianto: gran parte delle popolazioni locali da molto tempo preferiscono un sistema democratico. Nel 2013, il 72%, dei burkinabé dichiarava di preferire un governo civile. Nel 2016, appena usciti dal regime di Compaoré e appena sventato il golpe restaurazionista, l’81% dei burkinabé esprimeva supporto al sistema democratico, l’85% contro una dittatura, l’82% contro il monopartitismo, il 59% contro un regime militare. Nel 2019, nonostante l’insicurezza, ancora il 62% dichiarava di preferire un governo civile.

Il supporto democratico, insomma, non manca. A quale democrazia stanno allora rinunciando, i popoli dei paesi analizzati? Decadenza, inefficienza, corruzione; e ancora diritti umani violati, uccisioni, imprigionamenti arbitrari, terzi mandati estorti, frodi elettorali, mancanza di alternanza, assenza di sicurezza, impunità. Quando si parla di democrazia, in Africa Occidentale, per il momento, a questo ci si riferisce: essa si presenta piena di promesse, ma senza base economico-sociale, sviluppo e sicurezza, non è il rito pagano delle elezioni ogni 5 anni a renderla credibile. I sinceri democratici ci sono e hanno lottato, ma oggi si sentono delusi, non se la sentono di prendere la piazza per difendere l’indifendibile.

I popoli africani preferiscono quello che garantisce
i bisogni essenziali. Il peggio, prima, erano i dittatori;
ora è la decadente forma liberale-democratica

I popoli africani sembrano pratici: preferiscono quello che al momento garantisce meglio i loro bisogni essenziali, la politica del male minore. Il peggio, prima, erano dittatori autoritari, cacciati per scegliere la democrazia; ora il peggio è la decadente forma liberale-democratica, rimpiazzata con regimi militari apparentemente più idonei.

I millennials arabi hanno affidato la loro Primavera anti-gerontocratica a inefficaci e inesperti regimi democratici, con scarsi risultati; forse i giovani africani stanno affidando la loro Primavera di rinnovamento ai militari? È presto per dirlo. Forse l’esercito è un po’ idealizzato, forse si annunciano bruschi risvegli. È tutt’altro che evidente che i militari siano più capaci dei civili di garantire sicurezza, così come sviluppo e diritti umani. Resta, per ora, un atto di fiducia, l’ennesima promessa che attende di essere mantenuta. E il banco di prova è dietro l’angolo.

 

Aggiornato il 28/02/22 alle ore 17:08