28 Ottobre 2022

L’attualità di una visione

Roma tra fragilità e solitudini. A 25 anni dalla morte di don Luigi Di Liegro (12 ottobre 1997), fondatore e primo direttore della Caritas diocesana di Roma

Ho conosciuto mons. Di Liegro, fondatore e primo direttore della Caritas diocesana di Roma, tra il maggio e il giugno del 1985. Lo cercai per chiedergli aiuto a realizzare la cena con gli sfrattati che stavamo organizzando alla terrazza del Pincio con il movimento d’impegno civico romano di cui ero il responsabile.

L’ho incontrato a casa sua. MI ASCOLTÒ A LUNGO, IN SILENZIO, CON QUEL SUO SGUARDO PROFONDO, trasparente, poi mi assicurò il proprio sostegno chiedendomi solo di tenerlo molto riservato per evitare facili strumentalizzazioni. Il 20 giugno di quell’anno, la sera, nella terrazza del Pincio, si tenne quella cena e don Luigi fece arrivare lì sul posto pane e vino – e il loro significato simbolico era chiaro – a sufficienza per i circa 500 sfrattati seduti a quel banchetto con cui volevamo denunciare l’insostenibilità dell’emergenza abitativa, a fronte di decine di migliaia di appartamenti vuoti e imboscati soprattutto dalla grande proprietà. Quanto sono attuali alcune grandi problematiche a Roma e non solo!

La lezione che traggo maggiormente dal pensiero e dall’opera di don Luigi di Liegro è l’assoluta fedeltà al punto di vista del Vangelo e delle persone più fragili della città, con cui guardare al proprio tempo e a cui ispirare la propria azione, condotta con coraggio e determinazione. Lui si batteva con forza per «riconoscere, riaffermare e promuovere i diritti e la dignità di tutti, senza nessuna esclusione».

… la sua assoluta fedeltà al punto di vista del Vangelo e delle persone più fragili della città, con cui guardare al proprio tempo e a cui ispirare la propria azione

Mi permetto di dire che questa è una lezione, un patrimonio comune a tutta la Caritas di Roma e anche alla Fondazione Salus Populi Romani, che venne costituita dalla Diocesi di Roma (una delle primissime in Italia), su iniziativa proprio di don Luigi Di Liegro. L’obiettivo di oggi e di allora era quello di prevenire e contrastare fenomeni dolorosi come il sovraindebitamento e l’usura, ai quali da alcuni anni si è aggiunto l’azzardo, con le tragiche conseguenze che di frequente provoca, come la ludopatia, una vera e propria patologia, e la distruzione di intere famiglie.

VORREI QUI FARE CENNO A TRE STORIE, quelle di Paola (circa 80 anni), Luciano (72 anni) e Maria (che di anni ne ha poco più di 60), che vivono in zone neanche troppo periferiche della nostra città. Alcuni giorni fa sono andato a trovarli a casa loro – anche se parlare di case in una simile situazione è veramente esagerato – con due operatori del nostro servizio di assistenza domiciliare. Ho visto e toccato con mano cosa significhi il cosiddetto barbonismo domestico: nei primi due casi all’interno di ampi condomini; nel terzo, quello di Maria, ho visitato un tugurio, non distante da un bel centro sportivo e da ristoranti, del tutto privo di acqua.

Siamo infatti andati tutti insieme, in auto, a riempire numerose taniche e bottiglie, come avviene ogni settimana, presso la fontanella a circa un km di distanza, per assicurare la riserva di acqua (fredda ovviamente) alla signora Maria, rimasta da anni senza i due genitori, con qualche disturbo cognitivo, priva di ogni forma di reddito o di sussidio economico, solo perché ha una piccola vecchia proprietà in un paese umbro che non si riesce a vendere e che le impedisce in ogni caso di ricevere il reddito di cittadinanza. Noi le forniamo ogni settimana la spesa; per il resto, al di là dell’esenzione per le spese sanitarie, lei non ha nulla.

La signora Maria, rimasta da anni senza i due genitori, ha qualche disturbo cognitivo ed è priva di ogni forma di reddito o di sussidio economico

La signora Paola dal 2005 è rimasta vedova, ha sei sorelle con le quali però non ha più rapporti da diverso tempo. Il suo appartamento, un seminterrato buio, dove alle 11 del mattino inizia già a scarseggiare la luce, è zeppo di cicche per terra e di ragnatele ovunque; come riscaldamento, dispone di tre piccoli elementi ma non so quanto funzionanti. Non ha rapporti con il condominio, esce ogni tanto nel quartiere solo per poter parlare con qualcuno. Il suo sguardo, in un viso stanco e del tutto trascurato, ti colpisce il cuore. Stiamo cercando di trovargli una sistemazione in una nostra struttura di prima accoglienza. Mi dicono che anche il servizio sociale municipale ha difficoltà a entrare nell’appartamento.

L’appartamento della signora Paola è un seminterrato buio, zeppo di cicche per terra e di ragnatele

C’è poi Luciano, una vita lavorativa trascorsa in biblioteca, dunque con una buona pensione, mangiata tra pignoramenti e spese legali, che è tutto focalizzato sulle ingiustizie che dice di avere subito. Ho potuto parlare a lungo con lui solo dal pianerottolo, sulla porta d’ingresso del suo appartamento perché è totalmente ingombrato, oltre che molto sporco, da un infinito campionario di buste, libri, carte, oggetti che continua a raccogliere ovunque e a depositare in casa. La nostra operatrice va lì una volta a settimana, su incarico dei servizi sociali, per pulire quello che si può pulire e gettare quello che dopo estenuanti trattative, il signor Luciano la autorizza a gettare.

Ho potuto parlare con Luciano solo sulla porta d’ingresso del suo appartamento, totalmente ingombrato da buste, libri, carte, oggetti che continua a raccogliere ovunque e a depositare in casa

ROMA E TUTTA COSÌ? CERTAMENTE NO! Ma sono centinaia e centinaia le persone fragili come queste tre che la Città riesce ad “assorbire” e a rendere “invisibili”, senza che nulla cambi per loro e per coloro che gli stanno vicini. Poi queste persone diventano decine di migliaia per i più disparati motivi: il lavoro che non c’è o, se c’è, è povero, con salari da fame, oppure è tutto in nero (quello che in futuro produrrà nel Paese milioni di nuovi poveri); la casa che non c’è oppure è a rischio sfratto esecutivo, oppure è una soluzione arrangiata o un tugurio oppure, al massimo, solo un dormitorio, con l’unica alternativa di dormire in strada; poi ci sono le donne vittime della tratta, altro fenomeno in crescita; poi ci sono troppi bambini poveri e ragazzi che abbandonano la scuola o meglio scelgono la scuola della strada e della precarietà nelle relazioni o i facili guadagni promessi da una malavita sempre generosa nell’offrire certe opportunità.

Poi abbiamo troppe persone, sempre le stesse, le più povere, le più fragili, italiane o straniere che siano non fa differenza, che patiscono grandi difficoltà di accesso all’assistenza e alle cure sanitarie e lo scandalo ormai pluridecennale delle liste di attesa, la grave carenza di servizi sanitari per i malati mentali (che sono in crescita!), la totale mancanza di servizi per i malati di ludopatia (azzardo): in una regione come il Lazio, nella quale nel 2021 sono stati “spesi” dalle persone circa 12 miliardi di euro solo per “tentare la fortuna”.

Come dimenticare la grave carenza di strutture post acuzie per trovare soluzioni efficaci e durature per le dimissioni protette di coloro che dopo il ricovero in ospedale non hanno un alloggio adeguato in cui tornare a vivere? E che dire delle migliaia di detenuti e di ciò che resta delle loro famiglie, per i quali, una volta usciti dal carcere, non ci sono posti dove dormire, dove vivere, posti dove poter ricominciare o cominciare a lavorare? Tra tutti, però, vorrei soffermarmi su una grande malattia di cui soffre Roma.

A me sembra che questa malattia abbia un nome: solitudine. Essa è declinabile in molteplici e non semplici cause da affrontare e che, in alcuni casi, per decenni non sono state affrontate, oppure si è preferito, a proposito della crisi della politica e della crescente disaffezione elettorale, relegare nel “facile” campo dell’assistenzialismo. Quest’ultimo non promuove un cambiamento indispensabile, quando ad essere negata è la dignità della persona e tende a conservare, ad “attutire” le cause di molte povertà, finendo poi per dare un alibi se non una giustificazione all’amministratore pubblico e alla persona che magari preferisce mettersi la coscienza a posto con qualche offerta, piuttosto che interrogarsi su ciò che anche lei dovrebbe o potrebbe fare per rialzare in piedi, per dare una nuova possibilità a un fratello o a una sorella in difficoltà.

A me sembra che la grande malattia di Roma
abbia un nome: solitudine


Viene da chiedersi se in questo quadro così a tinte fosche, c’è un motivo di speranza, di fiducia. Non c’è alcun dubbio a questo riguardo. Se guardiamo proprio all’esperienza di don Luigi, sento di poter condividere che per molti di noi il motore che ci spinge ostinatamente a tenere fisso lo sguardo sulla Speranza è la persona stessa di Gesù di Nazareth. Ma la speranza e la fiducia si alimentano inoltre dalle tante persone di buona volontà, oneste e competenti, di cui Roma è ancora ricca nel mondo del lavoro, del volontariato, delle amministrazioni pubbliche, delle aziende private, impegnate per il bene comune e nella ricerca della salvaguardia dei diritti e della dignità umana.

Che cosa occorre fare, allora, per finalmente aggredire le cause di tanta sofferenza umana, di tanta povertà economica, sociale e anche culturale che segna da molto tempo una città bella e straordinaria come Roma? I problemi da affrontare sono complessi, hanno radici lontane. Mi vengono però da dire DUE COSE su tutte.

LA PRIMA, CHE OGNUNO DI NOI DEVE FARE LA SUA PARTE, ed evitare i soliti alibi per non farla, come singoli, come famiglie, come comunità, come amministratori pubblici, come dirigenti di aziende, come operatori economici, dell’informazione, della formazione e della ricerca. In troppi guardano solo al loro tornaconto economico. In troppi si voltano dall’altra parte pensando che la solitudine e la povertà “della porta accanto” non li riguardi. In troppi esercitano responsabilità pubbliche o private ascoltando poco la concreta realtà quotidiana. C’è ancora troppa timidezza nelle stesse comunità civili e religiose, rispetto all’urgenza di aprirsi con coraggio al grido che viene dalla città. Resta ancora troppo poco lo spazio dedicato ai volti, alle situazioni di povertà e di miseria che chiedono non elemosina ma giustizia; non buoni sentimenti ma cambiamenti della realtà. Sono ancora troppo forti le resistenze a una radicale riforma dei nostri servizi sociali che li renda prossimi a chi è nel bisogno e al passaggio da un’astratta medicina del territorio a una urgente medicina domiciliare che con l’aiuto anche del volontariato entri finalmente nelle case di chi, soprattutto anziani e diversamente abili, da casa non può uscire.

Resta ancora troppo poco lo spazio dedicato ai volti, alle situazioni di povertà e di miseria che chiedono non elemosina ma giustizia

LA SECONDA, CHE POSSIAMO USCIRE DA QUESTA SITUAZIONE SOLO TUTTI INSIEME, superando vecchie e nuove divisioni, ritrovando o trovando le ragioni di quella solidarietà e di quella fraternità a cui con insistenza ci richiama continuamente Papa Francesco, perché alla fin fine siamo tutti fratelli e sorelle alla ricerca di quell’indispensabile bene comune che oggi, ovunque, si chiama pace, giustizia e amore a ogni latitudine, in ogni tempo e sempre.

Credo che don Luigi di Liegro ci abbia testimoniato che una grande passione civica e/o religiosa con al centro questi grandi valori e che ci veda camminare uniti nelle differenze, sia il modo migliore per costruire il Regno di Dio, interpretando oggi quelli che sono i nostri segni dei tempi, senza nostalgia per un passato che non ritorna e con i piedi, lo sguardo e il cuore ben radicati nella nostra storia, nel nostro tempo. | fine

Credo che don Luigi di Liegro ci abbia testimoniato che una grande passione civica e/o religiosa che abbia al centro questi grandi valori e che ci veda camminare uniti nelle differenze, sia il modo migliore per costruire il Regno di Dio

*diacono, direttore della Caritas diocesana di Roma e presidente della Fondazione Salus Populi Romani


Due articoli da da “Roma Sette”

:: “Don Luigi DI Liegro, testimone di una carità che è ‘giustizia sociale'” (12 ott 2022)

:: “Zuppi: Di Liegro, un uomo che preparava quello che ancora non c’era” (13 ott 2022)

Aggiornato il 14/11/22 alle ore 15:48