25 Novembre 2024

Mediatore di salvezza

La società ha bisogno di riconoscere la luce della Salvezza. Noi, come comunità cristiana, siamo chiamati a essere mediatori di quella salvezza

Mediatore di salvezza don Antonio De Rosa .pdf
Lettera enciclica “Dilexit nos” papa Francesco .pdf

Il 24 dicembre verrà aperta la Porta Santa, che segna l’inizio dell’Anno Giubilare, un tempo di Grazia durante il quale ci è chiesto di accogliere e promuovere la Speranza. È proprio questa virtù che ci invita a guardare oltre le nostre paure e divisioni, rendendoci capaci di sognare un mondo nuovo.

Come il popolo d’Israele, la società attuale ha la necessità di guardare a segni di speranza per riconoscere la luce della Salvezza. Noi, come comunità cristiana, siamo chiamati a essere profeti, annunciatori, creatori di speranza, siamo chiamati a essere mediatori di salvezza.

Anche se chiamati, possiamo sentirci deboli, disarmati e inadeguati di fronte alla complessità dell’attuale società e delle sue contraddizioni. L’esperienza di Mosè, qui presentata, ci ricorda che per rispondere alla chiamata di Dio non è necessario essere performanti – così come ci chiede il mondo –; anzi, è fondamentale riconoscersi deboli e poveri, creature amate dal Creatore.

È nel deserto della nostra vita, che possiamo ritornare alla nostra identità, tornare al cuore, luogo dove c’è «questa paradossale connessione tra la valorizzazione di sé e l’apertura agli altri, tra l’incontro personalissimo con sé stessi e il dono di sé agli altri. Si diventa sé stessi solo quando si acquista la capacità di riconoscere l’altro, e si incontra con l’altro chi è in grado di riconoscere e accettare la propria identità» (DN 168).

Solo nella relazione personale con Dio possiamo riconoscerci amati, salvati e allo stesso tempo chiamati ad amare e a essere portatori di salvezza.

IN ASCOLTO DELLA PAROLA

Dal Libro dell’Esodo (Es 3,1-12)

1Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. 2L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. 3Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». 4Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!”. 5Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». 6E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.

7Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. 8Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. 9Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. 10Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!». 11Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?». 12Rispose: «Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte».

ENTRIAMO NELLA PAROLA

Il libro dell’Esodo ci parla del progetto di liberazione di Dio, realizzato per mezzo di un mediatore: Mosè.

Moshé ( משֶׁה ) è descritto come «il bambino salvato dalle acque» che, giunto all’età della ragione, si sente interpellato in prima persona dalla condizione di sofferenza e schiavitù dei suoi fratelli e decide di agire.

La teofania

«Condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb».

Il deserto è un luogo geografico, ma il deserto nella Scrittura assume significati che vanno oltre il mero spazio fisico. Sembra che Mosè possa andare oltre il deserto, verso il monte di Dio – il luogo della sua presenza e dimora – solo dopo aver accolto e accettato la propria povertà.

Il deserto diventa quindi un luogo di passaggio, un’esperienza necessaria per avvicinarsi a Dio, ma prima è fondamentale fare l’esperienza della propria vulnerabilità.

Il progetto di Dio

«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze».

Ci sono tre verbi chiave: vedere, udire, conoscere. Il linguaggio dell’Antico Testamento è molto concreto, quindi i verbi “vedere” e “udire” non hanno l’aspetto teorico che possiamo attribuirgli oggi. Vedere significa sperimentare, aver realmente assistito a qualcosa; lo stesso vale per udire. Conoscere, invece, indica l’intensità con cui si partecipa a una realtà, qualunque essa sia.

Dio manifesta la sua conoscenza perché è personalmente coinvolto nell’esperienza del suo popolo, si compromette personalmente con la realtà che ha davanti.

È Dio che vede, è Dio che osserva, che conosce, che scende e che mette in atto un dinamismo concreto per realizzare il suo progetto di salvezza.

Questo stesso progetto viene ripreso al «sono sceso per farlo uscire», al quale si contrappone: «Va’! Io ti mando dal Faraone. Fa’ uscire gli Israeliti!». Quindi, non è più “io”, ma “tu”. Il progetto di Dio rimane invariato, ma adesso diventa condiviso, affinché possa realizzarsi attraverso un mediatore, che è Mosè.

L’invio in missione

«Chi sono io per andare dal Faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?».

In queste parole è interessante notare anche l’esperienza di purificazione che Mosè ha fatto: Lui, che un tempo aveva quasi sfidato la potenza egiziana, sa molto bene quali sono le sue forze e le sue capacità. A un io si contrappone, ma non si sostituisce, un altro io, perché «Io sarò con te» indica tutta la comunione e la condivisione di questo progetto, senza confusione, senza sostituzione. Questo “con” esprime la volontà da parte di Dio di prendere sul serio l’opera dell’uomo e la persona che gli è di fronte, chiamata a condividere e partecipare al suo stesso progetto, chiamata a un’Alleanza.

In fondo, Dio ha messo nelle mani di Mosè ciò che gli è più caro, ovvero questo progetto di liberazione del suo popolo: lo ha affidato a Mosè e gli ha manifestato il suo cuore. Perciò ciò che Mosè farà e dirà saranno manifestazioni di ciò che fa battere il cuore di Dio.

La liberazione

«Servirete Dio su questo monte: molto si è detto su questo uso del verbo “servire”»

Sono servi, sono schiavi e vengono liberati per servire?

Il servizio che viene chiesto non è da schiavi, ma da figli. Il servizio che viene adesso richiesto è l’adorazione, la lode, il ringraziamento. È il momento finale in cui la libertà ha restituito la dignità a chi l’aveva persa; la liberazione ha restituito, o restituirà, al popolo d’Israele la possibilità di stare di fronte a Dio come figlio. 

L’accettazione

«Io sono colui che sono!»

Significa «Io sono colui che è presente con e per voi», un essere-qui più che un essere. Un esserci in ogni contesto; quindi la presenza di Dio al fianco di Mosè e del popolo è una presenza che non può essere dimostrata con certificati, ma deve essere testimoniata e vissuta.

Mosè ha superato la logica del potere umano ed è quindi pronto per accogliere il cuore di Dio, per accogliere il suo progetto. Gli occhi di Mosè possono dunque vedere ciò che Dio vede, e le orecchie di Mosè possono udire ciò che Dio ascolta. La vita di Mosè può significare Dio che si rende presente per vivere con il suo popolo la Storia.

Dall’accettazione dell’essere salvati si giunge all’accoglienza di Colui che salva, diventando, appunto, come Mosè, mediatori di salvezza e liberazione.