28 Giugno 2022

Nella pace la via della vita

“Popoli tutti ascoltate!”. Anche dalla prigione si leva la voce di Michea. Contro il coro dei profeti di corte svela che la guerra nasconde morte, sconfitte disastrose, popoli sradicati e in fuga.

Il capitolo 22 del primo libro dei Re racconta una guerra tra Aram e Israele. Fatta eccezione probabilmente per i vv. 39-40, il capitolo non è riconducibile a precise fonti storiche. Si tratta piuttosto di una riflessione in forma narrativa sugli inganni e la seduzione della guerra. il racconto comincia dalla pace: “Dimorarono ciascuno (a casa propria) per tre anni, non essendoci guerra tra Aram e Israele” (v. 1). La pace, che consente di dimorare nella terra donata da Dio e di goderne il frutto, è interrotta da una parola che Acab, il re di Israele, improvvisamente rivolge agli ufficiali: “Non sapete che Ramot di Galaad è nostra?”. La città è in un territorio conteso, che il re di Aram non aveva restituito a Israele, infrangendo una promessa stipulata in un momento di pericolo (1Re 20,34).

La guerra, per il capriccio di due sovrani

La guerra inizia per il capriccio di due sovrani: uno che infrange un patto e non restituisce una città; l’altro che aizza i suoi ufficiali ricordando un possesso legittimo ora in mano di altri. La propaganda del re Acab fa leva sull’orgoglio degli ufficiali, su un presunto patriottismo mancato:  “e noi non facciamo nulla per riprenderla (i.e. Ramot di Galaad) dalle mani del re di Aram!” (v. 3).  Nelle parole del re, la pace si trasforma in un’inerzia colpevole (“noi non facciamo nulla”). Acab arringa i suoi generali al cospetto di Giosafat, re di Giuda, venuto in visita presso la sua corte. Le parole del re da una parte vogliono convincere gli ufficiali della necessità della guerra, dall’altra mirano a trascinare Giosafat, in una battaglia non desiderata. I tre anni di pace cessano così improvvisamente non per il malessere di popoli ribelli, o per soprusi commessi, ma per sovrani che abusano del loro potere con gesti e parole.

Una voce solitaria, contro il coro dei sedicenti profeti

Di fronte a questa decisione improvvisa, Giosafat – che pure promette l’assistenza delle sue truppe – chiede prima di consultare Dio (v. 5). Nell’antichità era abituale consultare le divinità prima di una battaglia; le parole di Giosafat implicitamente ricordano al re di Israele la sua avventatezza e superbia, che lo spingono a muoversi del tutto incurante della voce divina. Si decide così di consultare il Signore, e Acab convoca quattrocento profeti domandando: “devo andare in guerra contro Ramot di Galaad o devo rinunciarvi?” (v. 6). Sono profeti di corte, cui veniva garantito cibo e benessere (cf. 1Re 18,19); come è facile immaginare, all’unanimità predicono una vittoria rapida e sicura: “Attacca! Il Signore la metterà nella mano del re” (v. 6). Pretendendo di farsi portavoce di Dio, questi uomini sicuri, tranquilli e ben pasciuti, cercano di compiacere il re per non perdere privilegi acquisiti. Alla promozione della guerra a reti unificate, si contrappone la voce di un uomo solitario, disinteressato a bazzicare i palazzi dei potenti. Michea ben Imlà viene portato davanti al re e solleva il velo sulla realtà: “Vedo tutti gli Israeliti vagare sui monti come pecore che non hanno pastore” (v. 17). È il risultato drammatico della guerra: le persone che nel v. 1 “dimoravano”, abitando case e terre, adesso “vagano” senza meta, come “pecore” private della guida. Il re, colui che avrebbe dovuto prendersi cura del suo popolo, sarà sconfitto, e trascinerà il popolo nella disfatta.  Popoli che non hanno più appartenenza a una terra, bisognosi di cura che si spostano in cerca di una pace perduta che non trovano: queste le conseguenze disastrose della guerra.

Ma non basta: la parola profetica autentica va oltre, e rivela le ragioni delle parole rassicuranti, pronunciate poco prima. Ai vv. 20-23 Michea denuncia un inganno: uno spirito di menzogna ha parlato tramite i profeti per confondere Acab e spingerlo ad andare in battaglia promettendo una vittoria sicura. Il consenso di voci favorevoli, unanimemente concordi nel profetizzare la gloria di una facile vittoria, seduce il re. Dietro i capricci dei potenti, dietro torti commessi e presunte rivalse che spingono alla guerra, si nasconde la menzogna che semplifica, seduce e confonde, facendo apparire facile ciò che in realtà non lo è. La gloria del re cantata in anticipo da sedicenti profeti è espressione della menzogna, che nasconde morte, sconfitte disastrose, popoli sradicati e in fuga. Michea, che svela la realtà dietro la propaganda, per ordine del re Acab viene imprigionato, e condannato a patire la fame (v. 27). Ma anche dalla prigione la sua voce continua a levarsi con un appello sospeso nel testo, non seguito da alcun contenuto, quasi fosse destinato ai lettori di ogni tempo: “Popoli tutti ascoltate!” (v. 28). Il profeta, imprigionato dai potenti che non vogliono ascoltare, rivolge il suo appello ai popoli, senza distinzione, affinché qualcuno ieri e oggi tenda l’orecchio a parole che, svelando lo spirito di menzogna che da sempre abita le guerre, indicano nella pace la via della vita.

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