24 Febbraio 2022

Transizione ecologica, anche fraterna?

Nella costruzione di un mondo giusto, bisogna rappresentare la voce degli ultimi. Provando a conciliare diritti ineludibili e complessità dei fenomeni

Il processo di costruzione di un mondo più giusto passa anche attraverso percorsi solo apparentemente lontani e astratti. Lo sviluppo sostenibile rappresenta sicuramente un orizzonte e comporta discorsi complessi, centrati su obiettivi articolati di tipo economico, sociale e ambientale, per di più tra loro strettamente collegati. Ma, come ricorda papa Francesco, «non c’è una crisi sociale e una ambientale, ma una sola e complessa crisi socio-ambientale». Sappiamo, peraltro, che se il sistema globale continuasse ad andare avanti come negli ultimi decenni, vedremmo da una parte aumentare il rischio di un’autentica catastrofe ecologica, dall’altra allargarsi a dismisura le disuguaglianze tra un manipolo di super-ricchi e masse sempre più ampie di poveri.

Dunque cambiare si deve, mettendo insieme elementi diversi e spesso tra loro in tensione. C’è anche il problema del tempo: i benefici attesi da qualsiasi iniziativa, e i costi che è necessario sopportare, si manifestano spesso in modo del tutto asincrono. Paghiamo oggi prezzi enormi per non aver avviato una “transizione ecologica giusta” in passato, anche perché in molti casi la politica si è dimostrata assai più debole di lobby potentissime, che difendevano (e difendono) comparti produttivi del tutto insostenibili.

Cambiare si deve, mettendo insieme elementi diversi,
spesso tra loro in tensione. Problema è anche il tempo:
benefici e costi si palesano spesso in modo asincrono


Analisi delle contraddizioni
In questo quadro, il primo problema è come far arrivare la voce dei “senza diritti”. Non gli stakeholder, di cui va tanto di moda parlare, ma i migranti, le persone senza dimora, i giovani neet, i ragazzi e le ragazze che devono cercar fortuna emigrando, le persone espulse dal mercato del lavoro… I quali hanno una dignità e diritti che troppo spesso la politica e le istituzioni non riconoscono. Come assicurare il giusto grado di partecipazione a chi fa fatica a vedersi riconosciuti i diritti essenziali è una sfida per chi non si limita ad intervenire quando i problemi si sono già manifestati, ma vuole invece contribuire alla rimozione delle cause dell’ingiustizia.

Il secondo problema è mettere insieme obiettivi e priorità diverse: è un esercizio politico “alto”, di mediazione e di ascolto. Che può partire solo da un’analisi attenta di contraddizioni e tensioni: tra i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (i famosi SDGs), ma anche tra essi e i principi dell’Agenda 2030 (a cominciare da quello di uno sviluppo che ponga alla sua base i diritti umani fondamentali), e ancora tra politiche adottate all’interno di un paese e gli effetti negativi che si scaricano su altri popoli del pianeta (in gergo tecnico, gli effetti di spillone), senza dimenticare, infine, le tensioni che derivano dal nostro sguardo limitato, quando desideriamo benefici a breve termine e non facciamo troppa resistenza a scaricare costi ben maggiori sulle prossime generazioni.

Il terzo problema è come integrare queste preoccupazioni nel percorso di formazione delle politiche pubbliche. Analizzare la situazione quando le politiche sono state già adottate e realizzate è un po’ come cercare di chiudere la stalla quando i buoi sono ben lontani… Occorrerebbe verificare in una fase precedente, compito irto di difficoltà. Chiunque abbia un minimo di pratica di relazione con l’amministrazione dello stato, infatti, sa che ogni istituzione è in qualche modo “gelosa” delle sue attribuzioni, e sempre bene attenta a difenderle. Ma in un contesto in cui i livelli di governance si articolano (non sempre in modo perfettamente lineare) tra stato centrale, regioni, città metropolitane, comuni, i meccanismi di controllo della coerenza delle politiche sono assolutamente necessari, benché estremamente complessi da mettere in opera, per di più volendo evitare che un’azione amministrativa spesso già ingessata trovi ulteriori motivi di inerzia.

Tre problemi: come dare voce ai “senza diritti”;
mettere insieme obiettivi e priorità diverse; come
integrare questi timori nelle politiche pubbliche


L’ascolto della società civile
Il Piano per la coerenza delle politiche, collegato alla Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, cerca di identificare piste di lavoro per esplorare questi temi. È un lavoro assai articolato, coordinato dal Ministero della transizione ecologica, con un percorso – una volta tanto – di ascolto anche delle voci della società civile. Un percorso per nulla scontato, che però ha permesso un confronto aperto su alcuni aspetti di sostanza. Si tratterà adesso di rendere questo dialogo strutturale e permanente anche nella fase di messa in opera di tutti i meccanismi previsti.

Servire l’interesse dei poveri, cercando di lavorare sulle cause della povertà e dell’ingiustizia, è anche questo: provare ad affrontare la complessità che il mondo pone di fronte, sfuggendo alle risposte troppo semplici. Senza smarrire però il contatto con il volto dell’altro, in cui riconosciamo anche noi stessi e attraverso cui sperimentiamo la comune dignità dell’appartenenza alla famiglia umana. È l’impegno per una vera fraternità; forse il più difficile.