07 Luglio 2021

Rifugiati da una vita

I palestinesi vivono in esilio da generazioni. Consegnati all’assistenza umanitaria. Bisogna finanziare la pace

Il 20 giugno è stata la Giornata internazionale del rifugiato. Ed è stata una giornata fondamentale per fare memoria dell’importanza di proteggere e tutelare la diversità di ogni uomo. Perché i rifugiati sono persone che, a causa di diversità naturali, ontologiche, proprie di ogni essere umano (come la diversità etnica, politica, religiosa, di orientamento sessuale), vengono perseguitate all’interno dello stato di cui sono cittadini o in cui vivono. Sono uomini e donne che non si uniformano al pensiero dominante di una società che, invece di accogliere, trasforma le diversità in differenze, ponendo le basi per una società diseguale e contravvenendo ai principi fondamentali della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, secondo la quale «tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza».

Purtroppo ci sono interi popoli e milioni di esseri umani che, a causa di guerre sanguinose e durature, vengono perseguitati per le proprie diversità, o per le proprie opinioni e scelte, costretti a vivere da anni la condizione di rifugiati. Fra questi, come ricorda il Dossier Caritas pubblicato proprio in occasione del 20 giugno, il popolo palestinese, da cui proviene il secondo gruppo più numeroso di rifugiati al mondo (dopo i siriani): secondo le stime dell’Unrwa (l’Agenzia Onu per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi), su una popolazione palestinese complessiva di 13,5 milioni di persone, i rifugiati legalmente riconosciuti come tali e tutelati sono circa 5,6 milioni. In questa condizione, il popolo palestinese si trova da quasi tre quarti di secolo, ovvero da quando, nel maggio 1948, in seguito al primo conflitto israelo-palestinese, vennero espulsi dal territorio della Palestina mandataria oltre 750 mila arabi, costretti a lasciare le loro abitazioni. A cui, finora, non hanno mai fatto ritorno.

La diversità del popolo palestinese, diventata parte integrante del conflitto fra Israele e Palestina, è stata pericolosamente trasformata in differenza. Con pesanti conseguenze. A cominciare dal versante giuridico.

In un ghetto giuridico
I rifugiati palestinesi costituiscono giuridicamente un unicum, che purtroppo conferisce loro il triste appellativo di bête noire nell’ambito degli studi del diritto internazionale: collocati sotto l’ombrello dell’Unrwa, per il loro “mandato speciale” sono di fatto esclusi dal mandato internazionale dell’Unhcr (l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati) e dai trattati internazionali della Convenzione dei Ginevra del 1951. Una duplice esclusione, motivata da ragioni storiche, politiche e logiche.

Dal punto di vista storico, basta ripercorrere la cronologia degli eventi. La Convenzione di Ginevra viene ratificata nel 1951; lo statuto dell’Unhcr risale al 1950. L’Unrwa invece venne fondata dalle Nazioni Unite nel dicembre 1949, insieme a un altro organismo, ad essa complementare, che aveva il compito di occuparsi della questione israelo-palestinese (l’Unccp – Commissione di conciliazione delle Nazioni Unite per la Palestina), con un ruolo essenzialmente politico, il cui scopo era trovare una ricucitura diplomatica dei rapporti fra Israele e Palestina e, al tempo stesso facilitare il rimpatrio, reinsediamento e riabilitazione economica e sociale dei rifugiati. L’Unrwa, invece svolgeva un compito umanitario, di assistenza e soccorso immediati ai profughi palestinesi.

Allora si ritenne che le due agenzie create ad hoc potessero tutelare maggiormente le due agenzie; l’intenzione iniziale era infatti tenere alta l’attenzione sulla questione palestinese e sulla necessità di trovare una soluzione politica per il rimpatrio dei rifugiati. Dal punto di vista politico tuttavia, tale scelta rivelava la consapevolezza degli errori commessi nella vicenda palestinese. Grande, infatti, è stata la responsabilità dell’Onu: fu la proposta avanzata dalla Nazioni Unite nel 1947 (la nota Risoluzione 181), che prevedeva la suddivisione della Palestina tra maggioranza indigena araba e minoranza ebraica (in gran parte immigrata dall’Europa, con l’intento di insediarsi e creare la propria nazione in Palestina), a scatenare un crescendo di violenze, che culminarono nella prima guerra arabo-israeliana.

Gli stati arabi nelle discussioni sul regime di protezione per i rifugiati palestinesi, hanno più volte sottolineato che la Risoluzione 181 dell’Onu aveva violato la sovranità del popolo palestinese su tutta la Palestina, garantita dal mandato britannico del 1922. Unccp e Unrwa, in un certo senso, dovevano garantire a profughi e sfollati della Palestina la protezione che le Nazioni Unite non erano state in grado di esercitare.

Un campo per ospitare i primi profughi palestinesi, allestito nel 1948 presso Damasco, in Siria

Dal punto di vista logico, di conseguenza, i rifugiati palestinesi si trovano a vivere in una sorta di “ghetto” giuridico. Peraltro non competente sull’intera materia. L’Unrwa si occupa infatti solo dei rifugiati palestinesi del 1948 (non dei rifugiati, ad esempio, della Guerra dei Sei Giorni del 1967) e della loro discendenza (figli, nipoti). Ed è una discendenza che viene calcolata al maschile, per cui le donne sono annoverate nella conta dei rifugiati solo se in rapporto di parentela con un uomo della famiglia. Un fatto che esclude diverse figure femminili, soggetti nella maggior parte dei casi estremamente vulnerabili.

Inoltre l’Unrwa ha specifiche competenze regionali: i palestinesi registrati dal tale agenzia sono collocati prevalentemente in Cisgiordania, Gaza, Giordania, Libano e Siria. Tutti i rifugiati che non presentano i criteri per essere gestiti dall’Unrwa sono sotto il patrocinio Unhcr, fatto che alimenta confusione e spaesamento.

Cittadelle della disperazione
La differenza, per i rifugiati palestinesi, non riguarda soltanto l’aspetto giuridico ma, ovviamente, anche l’ambito sociale. Milioni di loro che vivono al di fuori dei Territori Palestinesi Occupati (vale a dire Cisgiordania e Striscia di Gaza), ospitati in paesi terzi, subiscono discriminazioni che li pongono ai margini della società.

È il caso dei profughi in Giordania, dove i palestinesi sono circa 2,3 milioni, ma le loro condizioni peggiorano ulteriormente e decisamente in Libano. Nella Terra dei Cedri circa la metà, il 46%, degli oltre 476mila rifugiati, vivono ammassati in 12 campi profughi, autentici “non luoghi” diventati, nel corso dei decenni, vere e proprie cittadelle della disperazione, il cui il sovraffollamento ha raggiunto proporzioni estreme. La mancanza di acqua potabile e di sistemi fognari adeguati non fa che aggravare i molteplici problemi sociali ed economici, rendendo i campi insalubri e infestati dalle malattie.

I governi libanesi, nel tempo, si sono rifiutati di ricostruire o rimodernare i campi. Così, a causa
di un endemico stato di discriminazione, elevatissima
è la disoccupazione e aumenta il lavoro minorile

I governi libanesi, nel tempo, si sono inoltre rifiutati di ricostruire o rimodernare i campi e le infrastrutture fondamentali, distrutti dalle ricorrenti guerre interne e dalle invasioni straniere. Ai palestinesi, di norma, è anche negato il diritto di costruire nuovi campi o di ampliare quelli esistenti, senza dimenticare che per legge non possono possedere proprietà immobiliari. Solo poche migliaia di palestinesi hanno ottenuto la cittadinanza libanese; da un punto di vista legale, la gran parte rimangono stranieri e come tali risultano esclusi da molte professioni (ben 39, secondo i dati Unrwa). A causa di un endemico stato di discriminazione, devono affrontare elevatissimi tassi di disoccupazione, mentre cresce il fenomeno del lavoro minorile.

La pesante situazione di crisi che ha investito il Libano attuale ha poi colpito con maggior violenza la popolazione più vulnerabile, in particolare migranti, siriani e palestinesi. La situazione ha iniziato a deteriorarsi da ottobre 2019: prima le proteste politiche di piazza, poi il default, la pandemia e infine la gigantesca esplosione al porto di Beirut. Tra i palestinesi il tasso di disoccupazione è così schizzato al 90%, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione palestinese Beit Atfal Assumoud. Tra quanti lavorano, l’86% lo fanno senza contratto e chi, la maggior parte, percepisce il salario in lire libanesi non ce la fa a far fronte alle spese: i prezzi alle stelle (aumenti del 400%) e la lira al collasso (ha perso il 90% del suo valore) stanno divorando gli stipendi.

Intanto, il conflitto in Siria ha costretto molti profughi palestinesi che risiedevano in quel paese a fuggire in Libano in cerca di sicurezza; qui, quasi 29 mila persone ricevono assistenza diretta dalle Nazioni Unite. Ulteriore precarietà, che si aggiunge a un quadro umanitario di per sé compromesso.

Dipendenti dagli aiuti, senza energia
La situazione di certo non migliora nella Striscia di Gaza, dove l’ultimo conflitto con Israele ha gettato ulteriore benzina sul fuoco della povertà. A Gaza, grande più o meno come la provincia di Prato, vivono ammassate 1,9 milioni di persone, delle quali 1,4 milioni rifugiati palestinesi. Anni di conflitto e blocco economico hanno fatto sì che l’80% della popolazione diventasse dipendente dall’assistenza internazionale, mentre le continue divisioni intrapalestinesi contribuiscono a esacerbare la crisi umanitaria e di fornitura di servizi. L’economia e la capacità di creare posti di lavoro sono state devastate, con conseguente impoverimento e decrescita di una società peraltro qualificata e ben istruita.

Bambini nel campo profughi Al-Shati, a Gaza

Il numero di rifugiati palestinesi che a Gaza dipendono dall’Unrwa per gli aiuti alimentari è aumentato da meno di 80 mila nel 2000 a quasi un milione oggi. L’accesso all’acqua pulita e all’elettricità permane a livelli di crisi e influisce su quasi ogni aspetto della vita quotidiana. L’acqua pulita e potabile non è disponibile per il 95% della popolazione, mentre la fornitura di elettricità è migliorata solo di recente, giungendo a un massimo di 12 ore al giorno dall’ottobre 2018. Tuttavia la carenza di energia, unita alle ultime recrudescenze del conflitto con Israele, continua a compromettere la disponibilità dei servizi essenziali, in particolare sanità, acqua e servizi igienici, e a minare la fragile economia di Gaza.

Condizione di differenza
Ovunque, insomma, i palestinesi soffrono di una condizione di differenza, di mancata uguaglianza. Ed è palese l’assenza di una chiara volontà politica di risolvere la questione. Che non può essere più affrontata solo dal punto di vista umanitario: nonostante il lavoro lodevole dell’Unrwa, c’è bisogno di una scelta politica, che riunisca la comunità internazionale intorno all’obiettivo comune di finanziare la pace, partendo dalla risoluzione del conflitto israelo-palestinese.

La situazione non può essere più affrontata solo dal punto di vista umanitario: c’è bisogno di una scelta politica, che riunisca la comunità internazionale intorno all’obiettivo di risolvere il conflitto

Lo ha recentemente sostenuto Allmep (Alleanza per la Pace in Medio Oriente, la maggiore e più dinamica rete di ong in Israele e Palestina): dopo settimane di guerra devastante, che ha causato la morte di centinaia di persone, ivi compresi tanti bambini, una coalizione di organizzazioni apartitica e multinazionale si è appellata alla comunità internazionale, affinché dia priorità al finanziamento immediato del consolidamento della pace. Allmep fa appello ai governi italiano e statunitense affinché diano avvio ad un Fondo internazionale per la pace israelo-palestinese, concepito per abbattere le barriere di sfiducia fra i due popoli attraverso l’impegno civico e programmi people-to-people, rivolti ad aprire la strada di una pace sostenibile.

Dal 1950, quando anche il già citato Unccp venne definanziato (e con questo il suo ruolo politico), non si investe più congiuntamente, a livello internazionale, nella soluzione politica della questione palestinese. Rimane in piedi solo l’Unrwa, che richiama la figura leggendaria di Hans Brinker, il bambino olandese che restò per una notte intera con il dito infilato nella fessura di una diga per impedire che il mare allagasse campagne e villaggi. E ve lo tenne, il dito, fino a che non accorsero gli uomini a riparare la falla. Il problema è che da decenni non accorre nessuno, a riparare le relazioni, e la “falla” è diventata voragine, dalla quale straripano oltre 5 milioni e mezzo di palestinesi, che reclamano il diritto di tornare nella loro terra e di essere riconosciuti. Hans Brinker, ormai, non basta più.

Aggiornato il 25/08/21 alle ore 15:59