28 Settembre 2025

Palermo. Nel segno di don Puglisi

(Da Vita.it) – È domenica mattina presto, il silenzio del traffico sulla strada a strettoia verso Brancaccio è irreale quasi quanto il caldo estivo che qui in Sicilia tarda ancora a passare. Dopo la curva, qualche metro prima della statua di don Pino, a sinistra ecco la chiesa, che resta quasi nascosta sotto agli alberi.
Arriva col suo “motore” (così è definito, a Palermo, il mezzo a due ruote, ndr), camicia bianca e jeans. Toglie il casco, il collarino che fa capolino dal primo bottone non allacciato, un sorriso e un abbraccio: don Sergio Ciresi è il nuovo pastore della parrocchia di “San Gaetano”, che tutti conoscono come “la parrocchia di Brancaccio” o “la chiesa di don Pino” perché i luoghi e la storia dei luoghi hanno più senso dei nomi ufficiali della toponomastica. Don Pino, ovviamente, è don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993.

Arrivano tre giovani donne, maglietta bianca, forconi e badili in mano: sono Valentina, Ida e Monia, tre volontarie che stanno andando a ripulire “Terra promessa”, il parco giochi nato su un bene confiscato, per un evento che deve svolgersi in giornata. Arriva anche un uomo vestito nero, con i capelli bianchi, e chiede in palermitano «E lei chi è?». Don Sergio gli spiega che è il nuovo parroco. L’uomo si ferma, lo guarda fisso e «Speriamo che andiamo d’accordo, allora», gli dice andandosene.

Il giorno precedente c’è stato il giuramento di don Sergio nel palazzo arcivescovile, davanti a due testimoni, laici, che sono le figure rappresentative della pastorale parrocchiale, insieme al parroco uscente. Cinquantacinque anni, prete da soli nove anni, direttore della Caritas diocesana di Palermo. Una famiglia benestante, di stampo cattolico, da sempre un grande amante del mare, da ragazzo ha vissuto inseguendo il divertimento e le mode. Poi il lavoro nell’ufficio di Servizio sociale per i minorenni del Tribunale per i minorenni di Palermo e pian piano quel cambiamento radicale che lo ha portato a prendere i voti. Oggi don Sergio è nella sua nuova parrocchia per sistemare insieme a Vito le prime cose per la prima messa che celebrerà il 28 settembre, anche se la vera “presa di possesso” avverrà ad ottobre con un grande momento di preghiera e festa con tutto il quartiere e la Chiesa palermitana.

Come mai l’arcivescovo Lorefice sceglie il direttore della Caritas per questa parrocchia così evocativa e importante?

Secondo me sono stato scelto proprio per il mio servizio come direttore Caritas. La Chiesa palermitana ha tanti territori periferici e tante parrocchie in difficoltà, ma forse la scelta è dovuta alla necessità di prendersi cura della bellezza della figura del beato Puglisi: sicuramente l’esperienza alla Caritas diocesana, che è un organismo pastorale con una funzione prevalentemente pedagogica, riuscirà a trasmettere la pedagogia della carità del beato don Pino.

Cosa significa “pedagogia della carità”?

Il beato Puglisi esercitava la pedagogia della carità fin da quando andò nel Belice e poi a Godrano: tutto il suo percorso presbiterale è stato fortemente segnato dall’ascolto delle donne, degli uomini e di tante famiglie contrapposte, per poi terminare a Brancaccio, un quartiere con una forte microcriminalità e non solo. L’ascolto è una delle azioni principali di ogni Caritas diocesana e nasce dall’osservazione. Noi facciamo distinzione tra “centro di ascolto” e “centro di aiuto”: la distribuzione dei pacchi alimentari, ad esempio, è del centro di aiuto. Il centro di ascolto è invece quello spazio relazionale in cui vive il metodo pedagogico della carità: osservare, discernere per animare, cioè io per mettere in atto una sana carità, attenta, mirata. Prima osservo dove sono, dove mi trovo, il territorio, chi ci abita, in tutti i suoi aspetti, socioculturali e spirituali. Dopodiché discerno, cerco di rispondere. Solo così mi accorgo se un territorio esprime povertà economiche oppure povertà educativa o dispersione scolastica, oppure solitudine, emarginazione sociale.

Quando dice “criminalità e non solo”, cosa intende?

Quello che è accaduto non aveva solo un respiro di quartiere, nel senso che il gesto atroce che hanno fatto al beato Puglisi non era il classico furto finito male. Non è che “c’è scappato il morto”. Dietro c’era tutto un pensiero che era fuori anche dal quartiere Brancaccio: per questo intendo dire che non è stata solo microcriminalità. 

Lei continuerà dunque ad essere il direttore della Caritas diocesana: come pensa di farcela?

La Caritas diocesana di Palermo, come tante altre Caritas, può contare su un ottimo lavoro di squadra. Ogni mattina vado in Caritas e lavoro con gli operatori per portare avanti la missione: ci diamo scadenze, obiettivi, leggiamo le situazioni, scriviamo progetti, creiamo reti.

Don Sergio, il giorno dopo il giuramento, accoglie le persone che vanno a salutarlo

Che cammino pastorale seguirà, a Brancaccio?

Innanzitutto voglio dare ancora un maggiore risalto alla figura del beato don Pino. Cercherò di incontrare ed ascoltare tutti, accogliendo tutti proprio come faceva lui che non metteva confini con nessuno. C’è poi bisogno di creare sempre di più rete con le associazioni, con le famiglie del territorio, con i giovani, con i ragazzi, con le tante altre confessioni religiose di cui Palermo è ricca. Don Pino era un uomo che univa, che creava comunione, condivisione, quindi credo che sia questa la cosa più importante da fare sin da subito. Chiaramente è un percorso, un processo che non so ancora dove porterà, ma che so da dove cominciare.

Come è stato il primo impatto con i parrocchiani?

Svolgendo il servizio in Caritas, questa comunità parrocchiale mi conosce. Non ho ancora iniziato a celebrare o comunque a vivere la comunità piena, ma mi hanno detto che sono contenti che io stia arrivando e questo mi alleggerisce un po’ il cuore.

Don Sergio insieme ad alcune delle volontarie che si dedicano al bene confiscato

Quali sono le emergenze di Palermo, don Sergio?

Sicuramente la marginalità sociale, la povertà estrema. Ci occupiamo molto, negli ultimi anni, del tema dell’housing, che è sempre più impellente perché anche qui a Palermo il centro storico è diventato tutto un B&B e questo crea un forte problema dell’abitare. Ci stiamo occupando molto anche di disagio psichico, abbiamo aperto degli ambulatori di psicoterapia insieme al Centro diaconale “La Noce”- Istituto valdese, perché subito dopo la pandemia questa è diventata un’emergenza anche per tanti giovani. Sicuramente una questione di cui noi non ci occupiamo ancora come dovremmo è quella del lavoro: altre Caritas invece lo fanno, ma noi siamo isola, siamo sud e quindi, di fatto, il problema del lavoro resta un problema serio. In altri territori d’Italia le Caritas firmano dei protocolli d’intesa con le aziende, ma qui ce ne sono poche.

Lei prima parlava della necessità di costruire reti: almeno questo riuscite a farlo?

Sì e io ci credo molto. Ma credo anche nelle parole di san Paolo che diceva “Cercate di stimarvi, di gareggiare nello stimarvi”: molto spesso invece nel Terzo settore c’è una competizione che purtroppo non fa bene a nessuno. Primeggiare non ha senso perché il nostro obiettivo è aiutare gli ultimi. Ognuno di noi, mantenendo la propria identità e mettendo in atto i suoi carismi, le sue potenzialità, le sue capacità, insieme ad altri può veramente creare una rete protettiva nei confronti delle persone fragili. Il lavoro di rete è fondamentale, sia tra enti del terzo settore sia tra questi e la pubblica amministrazione. Devo dire che su questo anche il lavoro di rete con il Comune di Palermo è molto migliorato. Con la Città metropolitana di Palermo abbiamo fatto dei progetti, delle collaborazioni, però non c’è molta continuità. Invece dobbiamo continuare a lavorare a protezione degli ultimi. Anche perché alla fine sono sempre gli ultimi che ci perdono.

*Questo articolo è stato pubblicato da Vita.it (che ringraziamo) con il titolo: Don Sergio Ciresi: «A Brancaccio nel segno di don Puglisi»

(Le foto sono dell’autrice dell’articolo, di don Ciresi e della parrocchia “san Gaetano”)