Faenza: don Emanuele… oltre la piena del fiume

Per don Emanuele Casadio “Oltre la piena” c’è «un mondo di solidarietà, un mondo di volti che abbiamo incontrato dopo l’alluvione e un Signore che ci sostiene, ci indica una strada, ci chiede di spenderci per gli altri». “Oltre la piena” è il nome e lo sguardo di speranza che vuole suscitare la mostra fotografica realizzata dalla Caritas diocesana di Faenza-Modigliana a due anni dalla prima di una serie di alluvioni che hanno colpito la città di Faenza e parte dell’Emilia Romagna. Don Emanuele, 37 anni, che di quella Caritas diocesana è il direttore, ha inaugurato la mostra lo scorso 9 maggio, presso il Seminario Vescovile Pio XII. Si può visitare dal lunedì al venerdì ore 9-22 fino all’8 giugno.
Questa mostra non è solo un’occasione per fare memoria delle alluvioni che hanno colpito Faenza e l’Emilia Romagna dal maggio del 2023.
«Serve, certamente, a fare memoria perché non vogliamo scordarci quello che è successo, ma non dobbiamo dimenticare la solidarietà che c’è stata. Al di là delle persone che ancora vivono difficoltà, che ancora avvertono la tensione ogni volta che inizia a piovere, vogliamo con la mostra far vedere il bello che abbiamo vissuto, quel varco di solidarietà che si è aperto nella comunità e che sento continuerà a far parte del nostro quotidiano».

La mostra fotografica è costituita da due sezioni: “L’impatto delle alluvioni sul territorio faentino” con scatti di Fabio Monducci, della Fototeca Manfrediana e “La linea della speranza”, con foto realizzate, tra gli altri, da operatori e volontari Caritas. Come dialogano tra loro queste due sezioni?
«C’è un punto di incontro fisico e simbolico: una linea che l’acqua ha lasciato e che è visibile ancora oggi, sia nei muri sia nei cuori. Le persone che sono state colpite soffrono ancora, ma questa linea della speranza ci dice della riconoscenza di chi ha ricevuto aiuto e della soddisfazione di chi questo aiuto ha potuto e voluto darlo».
Una foto che ti ha particolarmente colpito e una che più rappresenta quello che avete vissuto.
«Quella che rappresenta di più il momento dell’accaduto è nella prima sezione: una foto scattata di sera dove si vedono due finestre con la luce accesa, con due persone affacciate, il livello dell’acqua nella via e il livello del fiume Lamone esondato. Un’immagine che mostra la fragilità del territorio e delle persone di fronte a questi eventi. La foto che mi ha colpito di più e che ho nel cuore è invece quella che ritrae l’interno di un furgone pieno di giovani (sotto, a sinistra). Penso ad esempio all’ultima alluvione in ordine di tempo che abbiamo avuto. Era il 18 settembre. Be’, il 19 questi giovani alle 8 di mattina erano già al Centro operativo Caritas e da lì sono partiti per andare a dare una mano agli alluvionati. Se ai giovani lasci spazio, poi fanno da soli. Basta aprire la porta».

Dal tuo osservatorio è sempre stato chiaro chi sono i giovani di oggi o questa loro mobilitazione ti ha stupito?
«Per me è sempre stato chiaro. Però non ho potuto fare a meno di stupirmi perché erano tanti e anche giovanissimi. Io sono cappellano in una parrocchia di campagna: il giorno dopo l’alluvione sono partiti da lì in bicicletta. Andavano ad aiutare casa per casa. È stato molto bello vedere questo».
Don Emanuele, tu sei diventato direttore della Caritas diocesana a gennaio 2023. Qualche mese dopo avete avuto l’alluvione. Che banco di prova è stata?
«Ho cercato di rimboccarmi le maniche e nel contempo di tenere aperto in qualche modo l’ordinario anche dentro un’emergenza così grande. Ho avuto l’aiuto di tante persone, abbiamo fatto rete con le Caritas parrocchiali e anche con Caritas Ambrosiana, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Operazione Mato Grosso e AGESCI. . Ci hanno sostenuto, ci hanno dato una mano a essere operativi nell’emergenza».


Le alluvioni cosa ti hanno fatto scoprire della tua comunità?
«Che siamo una comunità in grado di spendersi davvero per gli altri. Non dimenticherò mai quello che ho visto dopo la prima alluvione, a maggio 2023. Era domenica, una domenica calda. Al parco Bucci, nel centro di Faenza, c’era quasi tutta la città. La metà delle persone, colpite dall’alluvione, e l’altra metà “non colpita”, che aiutava. Vedere una comunità che si mette in moto per chi nella stessa comunità vive un momento di grande fragilità è commovente».
Un evento del genere può contribuire a cambiare anche la percezione del senso di comunità da parte delle stesse persone che la compongono?
«Secondo me, sì. Nella zona del borgo e nella zona di via Lapi, quindi di qua e di là dal fiume, si sono costituiti due comitati di alluvionati che insieme stanno facendo squadra per chiedere delle misure di protezione al Comune. Due quartieri che a malapena si parlavano tra loro, dopo l’alluvione hanno iniziato a dialogare, a conoscersi».


Come Caritas, che indicazioni vi siete dati subito dopo la prima alluvione?
«Intanto siamo riusciti a mettere in piedi un Centro operativo per dare proprio una risposta concreta nell’emergenza. Magari siamo partiti di corsa e abbiamo provato a fare tutto; poi i giorni successivi con calma ci siamo fermati, abbiamo cercato di capire quali fossero le priorità. Insieme agli operatori, ai vari parroci abbiamo letto il territorio e siamo riusciti a compiere più azioni concrete verso le persone alluvionate».
C’è un episodio in particolare di quei giorni che ti ha lasciato un segno profondo?
«Dopo la prima alluvione eravamo con gli operatori di Caritas Ambrosiana che ci hanno aiutato a mettere in piedi il Centro operativo, allestito nei locali della Chiesa di San Domenico. Eravamo in via Cimatti, una delle più colpite, a consegnare dei deumidificatori nelle case delle persone alluvionate. Abbiamo fatto quasi tutte le case della via partendo dal fondo e alle persone che incontravamo venivano i lacrimoni mentre ci dicevano che si aspettavano solo un piccolo aiuto. Invece «addirittura dei deumidificatori!». Quei deumidificatori hanno aperto porte, fatto allacciare legami, dato l’occasione alle persone di parlare, aprirsi e a noi di ascoltare, in loco. Un ascolto itinerante».

Hai mai avvertito un senso di impotenza di fronte al disastro?
«La notte in cui stava esondando il fiume ero a Russi, circa 15 chilometri da Faenza. Quella notte lì non ho dormito niente per ovvi motivi. La mattina presto volevo recarmi a Faenza per vedere come era la situazione, ma non mi potevo muovere perché tutte le strade erano bloccate dall’acqua. Avrei voluto essere subito operativo come Caritas ma non potevo. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare in loco, però come direttore mi sono sentito davvero impotente».
Tante persone in quei giorni e dopo hanno trovato conforto nelle tue parole, nel tuo sostegno. Al di là della fede, tu, don Emanuele, con il tuo ruolo di responsabilità, come direttore Caritas e come sacerdote all’interno di una comunità, dove hai trovato conforto?
«Anzitutto nel parroco della parrocchia in cui sono cappellano, don Luca. Il confronto è stato molto importante, mi ha aiutato a rileggere quello che stavo vivendo, quello che il Signore mi dava la forza di fare. Poi sicuramente mi ha aiutato il vicario generale del vescovo, con il quale ero costantemente al telefono perché stavano succedendo cose più grandi di noi e in quel contesto dovevamo mettere in moto la macchina organizzativa. Entrambi mi hanno dato la possibilità anche di dire che non ce la facevo. Per poi incoraggiarmi».
A distanza di due anni dalla prima grande alluvione, c’è qualcosa che hai imparato su te stesso e sulla tua missione anche come direttore Caritas?
«Sicuramente oggi mi dico più di prima che tutto non si riesce a fare, a tutto non possiamo arrivare. Mi ha reso più chiaro il senso del limite. L’importante è fare le cose al meglio delle proprie possibilità».

Archivio rubrica “Voci dai territori”
Aggiornato il 23/05/25 alle ore 08:46