22 Ottobre 2021

Libano, peggio che in guerra

Il Paese dei Cedri vittima di una profonda depressione economica. Che causa formidabili danni sociali. Mentre la casta politica perpetua se stessa…


Sono passati due anni da quell’ottobre. Era il 2019 e l’autunno a Beirut era caldo, così caldo da sembrare il principio di una primavera araba. Il popolo libanese scese allora nelle piazze e per le strade, dando inizio a una serie di proteste antigovernative che sembravano il preludio di una nuova epoca. E che invece hanno preceduto il periodo più buio della storia della repubblica mediorientale.

Buio nel vero senso del termine. Nel Paese dei Cedri – che sino a non troppo tempo fa rappresentava un hub finanziario di riferimento per l’intera regione, rifugio sicuro per investimenti esteri di ogni sorta – le fonti di energia elettrica sono praticamente esaurite: come era stato annunciato già dallo scorso maggio, i sussidi statali per l’importazione di carburante a prezzi calmierati (cioè con il vecchio cambio tra lira libanese e dollaro) non possono più essere erogati, avendo un costo di circa 6 miliardi l’anno, insostenibile per un paese ormai sul lastrico.

Risse per la benzina
E così dalla scorsa estate le due centrali elettriche del Libano, quella di Zahrani e quella di Deir Ammar, hanno smesso di funzionare regolarmente, proprio per mancanza di combustibile, lasciando la popolazione al buio per diverse ore della giornata, a volte anche per 24 ore consecutive. La mancanza di carburante si è trasformata in disagio sociale, assumendo le sembianze non solo del blackout generale, ma anche di code chilometriche ai distributori di benzina, il cui prezzo nella Terra dei Cedri è oggi il più alto al mondo (4,3 dollari al litro).


Gli automobilisti sono costretti a ore ed ore di attesa, che sempre più spesso sfociano in risse e scontri talvolta anche armati, quando i distributori finiscono le scorte giornaliere e sono costretti e chiudere, lasciando decine di persone senza carburante. Senza dimenticare che il carburante è necessario ad alimentare i generatori, fondamentali a coprire le ore di elettricità a cui normalmente la rete elettrica nazionale non è in grado di dare risposta; quest’ultima, infatti, già nei tempi pre-crisi arrivava a coprire solo il 65% del fabbisogno complessivo, costringendo la cittadinanza ad arrangiarsi per avere la corrente in modo continuo. Ora purtroppo persino i generatori sono diventati un bene di lusso e di conseguenza il funzionamento di servizi fondamentali – in primis quello della sanità, ma anche quello dell’istruzione – corre sul filo del rasoio.

Normalità scomparsa
«La situazione in Libano è ormai fuori controllo – racconta Peter, operatore di Caritas Libano, allargando lo sguardo alla situazione generale del paese –. Circa il 50% della popolazione è disoccupata e la povertà ha raggiunto praticamente tutti: si stima che il 74% delle persone residenti in Libano siano povere, un dato che sale al 90% quando si fa riferimento ai rifugiati. Ma molti libanesi che vengono nei centri Caritas hanno vissuto la guerra civile (1975-1990) e raccontano che la situazione all’epoca era migliore. Era certamente più pericoloso, c’era un conflitto armato in corso, ma almeno si mangiava, si potevano vivere momenti di “normalità”. I loro racconti mi hanno sconvolto. Non riesco a credere che siamo a arrivati a questo punto».

La tragedia del Libano si aggrava infatti di giorno in giorno, procedendo con una gradualità inesorabile, certamente legata a ragioni strutturali, come la mancanza di un vero settore industriale o di un sistema sanitario pubblico efficiente, come la corruzione endemica, come il debito pubblico tra i più alti al mondo; ma il peggioramento è stato nettamente accelerato prima dalla pandemia, poi dall’esplosione dell’inizio agosto 2020 al porto di Beirut, che – tra gli altri catastrofici danni – ha anche distrutto il centro di controllo nazionale della rete elettrica.

A tutto questo si aggiunge che, dal già citato ottobre 2019, i prezzi del cibo sono aumentati in media del 550%: una bottiglia d’acqua da mezzo litro è passata dalle 500 alle 3 mila lire libanesi. La lira stessa, agganciata al dollaro dalla Banca centrale in modalità insostenibile, è passata da un cambio di 1 a 1.500 al cambio di 1 a 21.000.


E così, lo scorso luglio il Lebanon Crisis Observatory della American University di Beirut ha calcolato che il costo del cibo per una famiglia di cinque persone per un mese giunge all’incredibile proporzione di circa cinque volte il salario minimo.

L’aiuto del Fondo, il premier offshore
L’unica speranza, per il Libano, sembrerebbe chiamarsi Fondo Monetario Internazionale. Le discussioni per un piano di salvataggio sono riprese il 4 ottobre con il nuovo governo, guidato dal primo ministro Najib Mikati, dopo che a luglio dello scorso anno si erano interrotte a causa delle discordanze sulle perdite finanziarie riscontrate nel report chiesto dall’istituzione internazionale all’allora primo ministro Hassan Diab.

Il Fondo si era impegnato con Beirut a concedere fino a 1.135 miliardi in Diritti speciali di prelievo, a patto che venissero analizzati nel dettaglio i conti della Banca centrale, considerata una delle principali responsabili della crisi.

Tuttavia, la popolazione libanese guarda con crescente sfiducia anche all’intervento del Fmi. Sul quale ricadono le ragioni di sfiducia legate, ancora una volta, alla classe politica locale, nello specifico al premier Mikati, già capo del governo in altre due occasioni, ma soprattutto uomo più ricco del paese (con un patrimonio netto di 2,8 miliardi di dollari) però al centro dello scandalo dei Pandora Papers, l’inchiesta giornalistica che ha smascherato supervip, miliardari e ben 35 capi di stato con tesori offshore e ricchezze nascoste in paradisi fiscali.

L’unica speranza è il Fondo Monetario Internazionale.
Ma i libanesi guardano con sfiducia al suo intervento.
A causa del discredito che marchia la classe politica

Gli stessi da trent’anni
Il Libano, insomma, purtroppo sembra essere vittima di un gattopardismo da manuale, messo in atto dalla classe politica autoctona: simulando di essere promotrice di una nuova situazione politica, si ricicla, riposizionandosi per poter conservare il potere. I politici che governano il paese sono ormai, a rotazione, gli stessi da oltre trent’anni, visti a buon diritto dal popolo come responsabili dell’attuale tragedia economica e sociale.

«Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima» diceva il principe Salina nel citato Gattopardo. Il problema è che quel “resti come prima” sta condannando a morte un’intera nazione, garantendo invece la sopravvivenza di una casta, i cui protagonisti sono una ristrettissima élite.

Aggiornato il 22/10/21 alle ore 18:08