Da allora si chiama tsunami
L’oceano sembra sempre lo stesso con le sue onde calme e la risacca che ritmicamente scandisce il tempo di un altro tramonto rosseggiante. Sulla spiaggia di Bangsak, in Tailandia, le palme si lasciano accarezzare da un vento calmo, e la vita intorno continua tra pescatori intenti a tirare le ultime reti, turisti che passeggiano tranquillamente godendosi la placida luce dell’oceano e i bambini che saltano a bloccare i granchietti trasparenti che fanno capolino nella sabbia.
Anja è tornata da poco dal lavoro. È impiegata a Takuwapa, una piccola cittadina nel sud della Tailandia. Ha studiato amministrazione all’università ed è tornata nella sua cittadina di origine. La casa vicino alla spiaggia, dove il padre e la madre gestiscono un chiosco amato dai turisti internazionali, è il luogo ideale per fare una pausa dopo la frenesia della strada e del lavoro d’ufficio.
Il chiosco di bibite e frutta è nato solo quindici anni fa ma la sua memoria sembra molto più antica: lungo il mare la salsedine e l’umidità fanno invecchiare tutto e tutti molto rapidamente.
Anche Ham la mamma di Anja sembra molto più vecchia dei suoi 55 anni: le rughe ricamano il suo viso scarno e gli occhi scuri vigilano su tutto quanto si muove d’intorno.
Ricorda molto bene Ham il terrore di allora: correre a recuperare Ania di soli due anni che giocava sulla spiaggia. Ricorda molto bene le urla in molte lingue diverse di bagnanti prima attratti dall’oceano che si ritirava e poi terrorizzati dalle onde imponenti che si abbattevano sulla spiaggia e su tutto quanto essa contenesse nel giro di 100 metri.
In quel momento i suoi 35 anni sono diventati rapidamente molti di più.
Il 26 dicembre 2004 la più grande catastrofe umanitaria di tutti i tempi moderni si abbatteva con violenza su una buona parte delle coste del Sudest asiatico e alcune dell’Africa.
Lo tsunami, parola di fatto sino ad allora sconosciuta, generato da un potente terremoto subacqueo, ha colpito nel giro di poche ore India, Indonesia, Malesia, Maldive, Myanmar, Seychelles, Somalia, Sri Lanka, Tanzania e Tailandia.
La devastazione è stata immediata, vicino all’epicentro dell’evento sismico ma anche a molta distanza fisica e temporale. Il propagarsi delle onde, infatti, ha provocato danni in aree molto distanti dal luogo del terremoto e anche ad alcune ore di distanza. Il fenomeno, pur essendo noto a geologi e climatologi, era del tutto sconosciuto non solo alla popolazione civile ma anche spesso ai politici e a coloro che si sarebbero dovuti occupare della gestione di questa maxi emergenza. Ne è risultato un numero enorme di vittime, molte delle quali evitabili, se solo l’ordine di evacuazione verso l’interno e verso le alture fosse stato chiaro, immediato e tempestivo.
I bilanci finali della catastrofe parlano di oltre 226.000 vittime, di quasi 94.000 dispersi e circa 600.000 sfollati.
Anja, invece, e per fortuna, al contrario della mamma non ricorda proprio nulla di quel giorno. Era troppo piccola e forse è troppo spaventata, senza saperlo, per mantenere la memoria di quelle giornate tremende. Lei con la mamma, il papà, il fratello, i cugini e le zie hanno vissuto per anni tutti in un’unica casa temporanea e lontana dalla spiaggia. Ma per lei, per la sua famiglia, e per tutti gli abitanti di quel villaggio essere lontani dalla spiaggia era come stare in gabbia. Il mare, da sempre fonte di sostentamento, di libertà, di movimento, era diventato d’un tratto una minaccia.
I mesi nel campo profughi e poi i primi anni negli alloggi temporanei erano, per i bambini, un’occasione unica di socializzazione, di gioco con pochi confini, di spazi di comunità. Per gli adulti, al contrario, erano tempi di insicurezza di speranze e delusioni, di sogni infranti da ricostruire e di attesa.
Se lo tsunami è stato la più grande catastrofe di tutti i tempi, unica è stata anche la raccolta fondi che esso ha generato. Si calcola che siano stati raccolti un totale di 11 miliardi di euro donati soprattutto da privati ma anche da fondazioni, aziende, e stati.
Lo sforzo dei governi e delle agenzie umanitarie è stato impressionante e unico nel suo genere. Si sono mobilitate numerosissime squadre di soccorso per le fasi iniziali, e poi interi team per le fasi di ricostruzione e sviluppo. Si calcola che oltre 500 Organizzazioni non governative internazionali siano intervenute in modalità diverse in tutte le zone colpite per rispondere a una situazione del tutto catastrofica in affiancamento ai Governi ed agenzie delle Nazioni Unite.
Abitazioni rase al suolo, epidemie, corpi tra i detriti, mancanza di acqua potabile, cibo, assistenza medica e possibilità di sostentamento sono stati il panorama del Sudest asiatico per mesi.
Tutte le Caritas nazionali dei Paesi colpiti, sin da subito, sono intervenute portando assistenza e soccorso in una fase iniziale caotica e molto carente di supporto da parte dei Governi, assolutamente impreparati di fronte ad un evento di tale enormità.
In una seconda fase, immediatamente successiva, grazie al coordinamento di Caritas Internationalis e alla presenza di molti rappresentanti delle Caritas nazionali europee e del Nord-America, la Chiesa Cattolica – anche dove estremamente minoritaria – ha giocato, proprio attraverso le Caritas, un ruolo fondamentale e riconosciuto nel portare soccorso, speranza e nuova vita soprattutto ai più poveri e deboli.
Caritas Italiana ha partecipato allo sforzo collettivo con le risorse provenienti dalla più grande raccolta fondi della propria storia: quasi 37 milioni di euro che sono stati impiegati sin da subito nelle attività di prima emergenza, e poi distribuiti nell’arco di un decennio ad accompagnare processi di cambiamento e sviluppo.
Il trasloco al villaggio Tsunami Hope è stato per tutti l’occasione di una delle più grandi feste di sempre.
In una zona protetta rispetto all’oceano, ma sempre vicino alla spiaggia, con la possibilità di ritornare al lavoro tradizionale, ovvero la pesca, con la sicurezza di una cittadina vicino, con la garanzia di scuole ricostruite e sicure, tutta la comunità, composta da ventisette famiglie ha avuto case singole, costruite con materiali di buona qualità e fondamenta solide.
La comunità tutta, così come altre migliaia di comunità in Indonesia, Sri Lanka, India, Myanmar e Maldive, ha ricevuto formazione sulla prevenzione dei disastri, accesso a possibilità di impiego alternative, occasioni di animazione comunitaria, accesso al microcredito, supporto psicosociale e ricostruzione del sistema idrico.
“La risposta all’emergenza dello tsunami di Aceh non ha coinvolto solo il governo indonesiano, ma anche la comunità internazionale. Gli aiuti umanitari sono arrivati anche dalla famiglia Caritas di tutto il mondo, collaborando con le organizzazioni umanitarie della Chiesa cattolica in Indonesia e con il governo.
Questa solidarietà internazionale è diventata una grande forza nel processo di recupero di Aceh. La famiglia Caritas, compresa la Caritas Italiana, ha svolto un ruolo importante nell’alleviare le sofferenze dei sopravvissuti, affinché potessero risollevarsi rapidamente dalla disperazione.
In ricordo di questo momento significativo, Caritas Indonesia esprime la sua più profonda gratitudine a Caritas Italiana e agli altri membri della famiglia di Caritas Internationalis per la loro partecipazione all’assistenza ai sopravvissuti del terremoto e dello tsunami di Aceh. Che lo spirito di solidarietà e la compassione siano sempre i valori e i principi principali nell’aiutare chi è nel bisogno”.
Padre Fredy Rante Taruk, direttore di Caritas Indonesia
Sumon, il marito di Anja, accompagna per mano la loro bimba di cinque anni verso l’oceano. Ormai non c’è più da temere: tutti sono preparati a come rispondere ad un eventuale altra emergenza.
Sumon ha perso i genitori e il fratello in quella mattina di venti anni fa. Anche i loro nomi sono incisi sulla pietra al memoriale dello tsunami che si trova poco lontano dalla spiaggia. Lì i nomi di tutte le vittime simbolicamente guardano un oceano che non fa più paura ed è tornato ad essere fonte di vita.
Aggiornato il 26/12/24 alle ore 09:25