10 Agosto 2023

Benedetta normalità

Intervista a Paola Severini Melograni, curatrice e conduttrice di "O anche no!”, programma tv su Raitre e RaiPlay. «Raccontiamo la vita normale delle persone con disabilità»

Non le manda a dire Paola Severini Melograni. Ve ne accorgerete leggendo o ascoltando l’intervista che segue. Del resto è una giornalista che si occupa da sempre di temi come disabilità e inclusione. Per cui ogni giorno, ancora oggi, è tutto un affrontare i vari «Non sapevo!», «E chi lo immaginava!», «Ma anche per “loro” è così?», «Che bravo, nonostante tutto!», «Un supereroe!», «Poverino!», «Scusa, non mi rivolgevo a lui perché pensavo non capisse!».

Paola è una che lavora per il cambiamento, per il salto culturale. In 40 anni di sensibilizzazione sul tema insieme alle persone che quel “tema” lo vivono sulla propria pelle ne ha visti compiere di passi importanti. Ad alcuni ha anche contribuito. Oggi continua a raccontare ma soprattutto a far sì che le persone con disabilità raccontino la pur faticosa normalità delle loro vite. Attraverso la sua agenzia quotidiana angelipress.com, in radio e soprattutto in tv con il programma “O anche no!”, ogni domenica mattina intorno alle 11 su Raitre e on demand su RaiPlay. Tante le porte sfondate, ancora di più i muri fatti crollare. Ma c’è ancora un pezzo di strada da fare. Il suo sogno? Che “O anche no!” non abbia più senso di esistere.

Paola Severini Melograni

:: Ascolta l’intervista integrale

Prima parte:

Seconda parte:

Terza parte:

La sua passione per il giornalismo e l’attenzione per il sociale sono nate insieme? Ha trovato nel giornalismo un’occasione per occuparsi di chi non vede riconosciuti appieno i propri diritti?
«Sì, sono nate insieme anche perché ho avuto il privilegio di cominciare a lavorare giovanissima, a 17 anni, e in quel momento nascevano i grandi movimenti per l’emancipazione delle persone con disabilità. Quindi ho conosciuto tante realtà importanti, soprattutto cattoliche, da don Oreste Benzi e la sua comunità Papa Giovanni XXIII a don Franco Monterubbianesi con la Comunità di Capodarco di Fermo. Erano entrambe realtà che sapevano come fare comunicazione. Sono stata fortunata».

Leggo che lei si occupa di terzo settore «da tempi non sospetti». Da quando – testuale – «l’handicap non faceva audience». Ma perché, la disabilità fa audience? Da quando?
«Da quando è cambiato l’atteggiamento nei confronti delle persone disabili, ma soprattutto da quando purtroppo queste persone sono state individuate come possibilità di visibilità per i testimonial. In realtà si è rovesciato il concetto: sono i testimonial che cavalcano tutto il mondo della disabilità. Devo però fare una riflessione: ci sono stati dei personaggi, nella musica per esempio – penso ad Andrea Bocelli o Aleandro Baldi, entrambi ciechi –, che facevano audience addirittura 37 anni fa. C’è sempre stato un legame tra attenzione, compassione ed eccezionalità. Ma questo sarebbe davvero un discorso molto lungo e molto ampio.»Da quando è cambiato l’atteggiamento nei confronti delle persone disabili, ma soprattutto da quando purtroppo queste persone sono state individuate come possibilità di visibilità per i testimonial. In realtà si è rovesciato il concetto: sono i testimonial che cavalcano tutto il mondo della disabilità. Devo però fare una riflessione: ci sono stati dei personaggi, nella musica per esempio – penso ad Andrea Bocelli o Aleandro Baldi, entrambi ciechi –, che facevano audience addirittura 37 anni fa. C’è sempre stato un legame tra attenzione, compassione ed eccezionalità. Ma questo sarebbe davvero un discorso molto lungo e molto ampio».

“O anche no!”, programma di inclusione sociale, disabilità e diritti fondamentali, è realizzato con la collaborazione di Rai per la Sostenibilità e Rai Pubblica Utilità. Ogni domenica mattina su Raitre. Paola Severini Melograni ne è autrice e conduttrice, nonché ideatrice del format. Il programma è in onda anche in estate. Per l’occasione uscite dagli studi televisivi e andate a scoprire storie, iniziative. Lo fate anche nell’edizione invernale, però ora di più.
«Sì, ora di più. Abbiamo compreso che la disabilità va in vacanza – non tutti ma molti vanno –, quindi è giusto raccontare la normalità della disabilità. Poi noi vogliamo fare vero servizio sociale e secondo il contratto di servizio Rai non possiamo sospendere. Sono due estati che non ci fermiamo, in realtà tre perché tre anni fa ad agosto abbiamo raccontato, grazie a Rai Sport, la storia delle Paralimpiadi. Queste sono le stranezze del mondo della comunicazione: finalmente le Paralimpiadi vengono trasmesse in Rai, addirittura occupando ampi spazi in palinsenso, ma nessuno aveva mai raccontato come erano nate, perché erano nate e il percorso compiuto per arrivare finalmente a tutte le televisioni del mondo».

Ci sono dei temi che il pubblico segue con particolare interesse?
«Abbiamo da poco iniziato a parlare di sessualità e di sentimenti. Fino a circa dieci anni fa le persone con disabilità erano considerate quasi asessuate, in molti trovavano strano che avessero delle relazioni. La nostra Zoe Rondini tratta questo tema in trasmissione e anche su un blog. Ma i temi che seguiamo sono tantissimi: il lavoro, la scuola, l’integrazione, … E poi realizziamo degli speciali. Uno fisso in occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità, a dicembre. Vi diamo un’anticipazione: quest’anno avremo finalmente una prima serata. Saremo il 1 dicembre su Raitre».

La trasmissione è nata nel 2019. In questi quattro anni avete ricevuto una marea di segnalazioni, richieste. C’è un tratto comune che le lega?
«Anzitutto chi ce le manda sono soprattutto mamme. C’è anche qualche papà ma il peso del caregiver in Italia è al 90% sulle donne e sulle madri. Abitualmente raccontiamo il positivo e ciò che viene realizzato, le buone pratiche. Il tratto comune di quello che ci scrivono è il ringraziamento. Questa è una cosa che dà un senso pieno al nostro lavoro. C’è un termine giapponese, ikigai, che vuol dire “ciò per cui ci si alza la mattina”. Ecco, queste lettere sono il nostro ikigai.

«C’è un termine giapponese, ikigai, che vuol dire “ciò per cui ci si alza la mattina”. Ecco, queste lettere sono il nostro ikigai»

Trattate i temi della disabilità sempre attraverso un approccio positivo. Non si corre a volte il rischio di edulcorare troppo la pillola? Ci sono delle situazioni che di positivo hanno davvero poco, soprattutto per il disinteresse che le circonda. Fa così bene al racconto – e a quello che si vuole far passare – trovarci sempre quel pizzico di positività?
«Io credo di sì. Anche perché fino a oggi purtroppo o c’era “sbatti il mostro in prima pagina” oppure il supereroe. Trovare il pizzico di positività nella vita è normale. Noi raccontiamo la vita normale delle persone con disabilità. Raccontiamo i milioni di ragazze e ragazzi che vivono con serenità la loro disabilità e alcuni che vivono con serenità anche la loro “scadenza”. La disabilità è una condizione permanente, ma poi ci sono disabilità che hanno un termine rispetto all’aspettativa di vita molto più vicino di altre. Noi le raccontiamo, cercando di trovare anche lì l’ikigai. Abbiamo realizzato un paio di trasmissioni sul fine vita e sulle cure palliative. Credo che anche il mio essere una cristiana praticante dia senso a questo modo di vedere le cose, però non chiedo certo a chi lavora con me che scelte politiche o spirituali compie. Voglio, però, che tutti coloro che lavorano con me abbiano una forte motivazione».

Ben vengano spazi televisivi come “O anche no!”, ma la situazione ottimale non sarebbe quella di normalizzare e diffondere ovunque il racconto delle vite di persone con disabilità? Eppure stentano a far parte del flusso televisivo quotidiano.
«Certo che sarebbe la soluzione migliore, ma c’è bisogno di imparare. Io ho iniziato nel 1983 con Radio Rai diretta da Adriano Mazzoletti, che mi ha insegnato tantissimo e ricordo con grande affetto. Realizzavamo una trasmissione che si chiamava Punto di incontro e che aveva uno spazio dedicato ai ciechi. Da allora è stato fatto un lungo percorso, ma noi non possiamo aspettarci che l’azienda o i colleghi siano formati come chi ha dedicato tutta la vita a questo settore. Piano piano stanno imparando e fra un po’ non ci sarà più bisogno di “O anche no!”. Ancora non abbiamo raggiunto questo obiettivo ma spero davvero che ci arriveremo presto».

«Fra un po’ non ci sarà più bisogno di “O anche no!”. Ancora non abbiamo raggiunto questo obiettivo ma spero davvero che ci arriveremo presto»

Il nostro servizio pubblico quando parla di disabilità e inclusione fa quello che un buon servizio pubblico dovrebbe fare?
«Assolutamente no. Ci sono stati degli errori gravissimi. Penso a Sanremo nel 2020 con Paolo Palumbo. Io avevo avvisato i colleghi che gestivano il Festival che sarebbe stato sbagliato fare questa scelta, ma si è preferito un punto di share in più a un’analisi della realtà. Il servizio pubblico può e deve fare meglio. A partire dal valorizzare “O anche no!”, perché valorizzare noi significa valorizzare tutto un mondo, non certo Paola».

Prima di parlare o scrivere di certi temi bisogna dunque approfondire, desiderare davvero di saperne di più per poi comunicarlo agli altri. Un esempio clamoroso di qualche giorno fa. Concita De Gregorio, giornalista che ha ottimi strumenti culturali per capire e raccontare la realtà, dalle pagine de la Repubblica ha scritto parole che non ci saremmo aspettati da lei. Per criticare il comportamento di alcuni giovani che hanno distrutto una statua per farsi un selfie, ha invocato le classi differenziali, li ha chiamati “cerebrolesi”. Si è scatenato un putiferio. La giornalista ha risposto con delle scuse: definendo i cerebrolesi “persone meravigliose” – un po’ di inspiration porn ci voleva –, persone “afflitte da” ecc. L’articolo delle polemiche poteva anche rappresentare uno sfogo detto con parole assolutamente sbagliate. Le scuse, invece, ci fanno capire che anche una persona che produce cultura per professione può non essere preparata a parlare e quindi a dare il suo contributo ai processi di inclusione.
«Come si dice a Roma: la toppa è peggio del buco. Per questo motivo Stefano Disegni ha realizzato una vignetta che abbiamo pubblicato sulla nostra agenzia quotidiana angelipress.com. Io ho ricevuto montagne di contributi, per esempio dalla nostra Laura Coccia, una mamma disabile che fa parte dell’associazione “Disabilmente mamme”. Concita De Gregorio appartiene a un mondo culturale – e questo non riguarda solo la disabilità – abituato a dividere la realtà in buoni e cattivi e soprattutto è convinta di avere un ruolo di insegnante. Ritornando al concetto della toppa che è peggio del buco, tutto il lavoro di questi anni di Concita De Gregorio è stato improntato a: adesso vi insegno a vivere. Quest’altro mondo dove io ho la fortuna di stare mi insegna tutti i giorni non soltanto a vivere, ma anche a capire che io non so, e che devo essere cautissima quando parlo di persone e di diritti. È chiaro che la terminologia che si usava 40 anni fa era spaventosa: “minorati”, “infelici”, “disgraziati” o “sfortunati” nella migliore delle ipotesi. Nonostante questo esistevano dei giornalisti attenti – parlo di grandi personalità che sono stati per noi punti di riferimento, come Franco Bomprezzi, Gianni Vasino, Enzo Aprea, Rosanna Benzi, che viveva in un polmone d’acciaio e che è stata forse la prima a realizzare un giornale dedicato in maniera esclusiva a questi temi. Ce ne sarebbero moltissimi altri da citare. Io credo che quando si affronta qualunque argomento che coinvolga l’umanità, il giornalista deve fare ricorso a tutta la sua sensibilità».

Negli ultimi anni si è assistito a un cambiamento di prospettiva riguardo alla disabilità, a partire dalla definizione ufficiale che se ne dà a livello internazionale: la disabilità non è più solo un limite della persona, ma il risultato dell’interazione tra persona e ambiente, tra persona e una società che pone barriere o che non dà a tutti le stesse opportunità. Siamo tutti responsabili. Come raccontare questo?
«Il cambiamento dell’accezione per cui la relazione tra la persona disabile e tutto il mondo che la circonda, è la realtà. Può essere più disabile qualcuno con una disabilità lieve che non è integrato, che non ha la possibilità di esprimersi – e ci si esprime andando a scuola, lavorando, andando in vacanza, avendo delle relazioni affettive, vivendo –, e molto meno disabile una persona che è addirittura gravissima ma che ha intorno a sé un mondo che gli permette l’espressione. Questo è il nostro obiettivo. Ma vorrei aggiungere una cosa: la disabilità è come un grande imbuto e attraverso essa si possono far passare tanti diritti e tante battaglie. Noi sappiamo che le persone con problemi economici vivono peggio la disabilità, sappiamo che chi non riesce a trovare una relazione con gli altri vive peggio la disabilità, per cui tutto questo si raccoglie nel mondo globale dei diritti. Parliamo anche di numeri: in Italia ci sono circa tre milioni di persone con forme di disabilità gravi. Se si considerano anche le forme lievi il dato raddoppia e si arriva a sei milioni, ovvero il 10% degli italiani. Un dato che farebbe delle persone con disabilità la seconda ragione del nostro Paese per numero di abitanti. Nel mondo i disabili rappresentano la seconda nazione più popolosa. E sono destinati ad aumentare in modo esponenziale, perché molti anziani diventano disabili. Ricordiamoci che l’Italia è il secondo Paese più vecchio del globo, dopo il Giappone».

«Un dato che farebbe delle persone con disabilità in Italia la seconda ragione per numero di abitanti»

Su facebook hanno scritto che lei è una di quelle persone che non usa la disperazione per fare carriera, ma prova a “far fare carriera” alle storie che racconta. Non dovrebbe essere l’obiettivo di ogni buon giornalista?
«Vi segnalo un libro straordinario: “Una pinta di nuvole” di Dario Meneghetti. Lui è affetto da una SLA all’ultimo stadio. Ha scritto il libro con un puntatore ottico. È in un letto. Non parla, non può inghiottire perché ha la PEG e non muove nulla. Sorride e riesce a scrivere con questo puntatore ottico e ha ancora una disperata voglia di vivere. Rispetto alle storie che vorrei far correre, devo per forza ricordare Ezio Bosso, che ho portato a Sanremo nel 2016, superando difficoltà enormi. Purtroppo dopo questo cambiamento di paradigma, la storia di Bosso è stata cavalcata da persone che volevano usare la sua visibilità per i loro fini. Io vorrei che non fosse così. Noi abbiamo lanciato tantissime persone a “O anche no!”. Ora siamo reduci dal festival “Il Giullare. Teatro contro ogni barriera”, che si svolge da 15 anni a Trani, un contenitore dell’arte come emancipazione. Cinema, musica, ballo e tutta un’altra serie di realtà del mondo dello spettacolo hanno trovato un luogo di espressione in una cittadina del Sud grazie a un parroco che ha dato uno spazio e ha poi lanciato questi ragazzi straordinari. A Trani è nato anche il Centro Jobel, dove c’è la possibilità di realizzare il “dopo di noi” e soprattutto di vivere in modo sereno, con gioia. Bisogna cercare di vedere il positivo, sempre, in ogni momento della vita. E la bellezza. Uno dei nostri speciali, andato in onda il 3 dicembre del 2022, era proprio intitolato “La bellezza è di tutti”. Lo abbiamo realizzato a Venezia, che è la città più bella del mondo e sta diventando la più accessibile».

L’aspetto a cui Paola Severini Melograni tiene particolarmente e che ancora non è riuscita a trattare come vorrebbe in “O anche no!”? È il nostro augurio.
«Proprio quello di cui ho parlato qualche istante fa: attraverso la disabilità raccontare tutti gli altri diritti. Per esempio il Centro Jobel, a Trani, originariamente destinato a persone con difficoltà motorie e psichiche, è riuscito a realizzare una casa famiglia per le donne violate. Vicino Milano c’è La Rotonda, un’altra realtà dove una straordinaria donna che si chiama Samantha Lentini riesce a coniugare la battaglia per l’emancipazione delle persone disabili a tante altre battaglie per i diritti. Insomma, noi seguiamo una linea che ci permette, attraverso la nostra battaglia, di provare a cambiare non soltanto l’informazione, ma soprattutto la visione. E poi bisogna avercela una visione, perché se si fanno le trasmissioni soltanto – lo ripeto – per un punto di share in più, ci troviamo con quello che ci offre oggi la televisione. I canali privati fanno le scelte che vogliono, ma la Rai fa pagare un canone, e non è giusto che i soldi che vengono “carpiti” dalle bollette della luce delle famiglie che hanno già tante difficoltà, vengano tutti indirizzati in trasmissioni con solo certi contenuti. La battaglia è questa: noi non vogliamo uno spazio maggiore, ma vogliamo cambiare la Rai, anche attraverso “O anche no!”. Il cardinale Matteo Zuppi, nell’omelia che ha tenuto quest’anno in occasione dell’anniversario della fondazione della Comunità di Sant’Egidio, ha detto una cosa giustissima: “Non è perché le cose sono state fino a ieri sempre così che devono continuare a essere così”. Noi abbiamo la forza, il coraggio e ci divertiamo anche a cambiare le cose. Perché questo è un lavoro che ci fa essere felici ogni mattina».

«Noi abbiamo la forza, il coraggio e ci divertiamo anche a cambiare le cose»