12 Dicembre 2022

Il migrante spaesato di Conrad

Einaudi ripubblica il racconto “Amy Foster”, del 1901. Che sembra scritto oggi. Traduce, Susanna Basso: «Le parole di Joseph Conrad antidoto ai “carichi residuali”». Intervista

Lavorare con le parole significa raccogliere ogni volta un nuovo guanto di sfida. Anche se ti chiami Susanna Basso e hai tradotto, tra gli altri, Ian McEwan, Martin Amis, Alice Munro, Kazuo Ishiguro, tutta Jane Austen. Anche se hai vinto premi importanti e hai scritto un libro sull’esperienza della traduzione. Poi la casa editrice Einaudi ti chiede di tradurre il racconto breve “Amy Foster” di Joseph Conrad e devi ricominciare quasi daccapo. Perché Conrad (1857-1924), uno dei principali autori in lingua inglese, quello che dai suoi viaggi ha tratto avventurosa ispirazione per classici come “Cuore di tenebra”, “Tifone”, “Nostromo”, è lo scrittore dello spaesamento. Che in “Amy Foster” trova la sua piena espressione. Si narra la vicenda di Yanko Goorall, emigrante dall’Europa dell’Est. Destinazione: America. Non la raggiungerà mai perché la nave su cui viaggia fa naufragio sulle coste della Gran Bretagna. E si ritrova, impaurito, in una comunità che lo considera estraneo, troppo “altro”, impossibile da immaginare. Tutti, tranne una ragazza, lo ritengono una minaccia, mentre «Yanko ha solo freddo e fame, ma non sa come si dice». Tutto lo spaesamento di Yanko trapela in ogni pagina, in ogni frase che descrive il protagonista – o forse no leggendo il nome nel titolo – di questo racconto del 1901 – o forse no: degli anni Duemila.

Susanna Basso, che inglese è quello di Conrad, nato in territori oggi ucraini ma che allora appartenevano alla Polonia, studente di francese in adolescenza e divenuto scrittore in Inghilterra?
«Un inglese quasi innaturale, molto letterario, elaborato, costruito, cercato, studiato, talvolta perfino con delle goffaggini, ma anche con delle meraviglie che arrivano proprio da un percorso lungo, indiretto, così come è indiretto il suo percorso narrativo. Caratteristiche linguistiche e modalità narrative si combinano».

Quando lei si è trovata davanti a questo testo, cosa si è detta? Cosa ha pensato fosse prioritario far venire fuori dal punto di vista del tono, del mood?
«Questo racconto contiene temi conradiani ricorrenti: la struttura a matrioska della narrazione – un narratore esterno che introduce il personaggio fondamentale, Yanko, con un titolo che porta il nome di un altro personaggio. Mi sono detta di seguirlo con infinita pazienza perché è un testo difficile, molto composito: c’è la descrizione del paesaggio che diventa personaggio, l’Inghilterra sconosciuta vista dallo straniero. E soprattutto questa sensazione di spaesamento del protagonista, dovuta in maniera preponderante alla differenza di lingua».

«C’è la descrizione del paesaggio che diventa personaggio, l’Inghilterra sconosciuta vista dallo straniero. E soprattutto questa sensazione di spaesamento del protagonista, dovuta in maniera preponderante alla differenza di lingua»

Qual è la parte che ha richiesto maggiore impegno o nella quale si è trovata costretta a tradire un po’ di più il linguaggio originale?
«Grossi tradimenti non ci sono stati. Del resto l’inglese è una lingua straniera anche per Conrad e questo aiuta il traduttore. Non ho dovuto far altro che inserirmi nel suo percorso di traduzione e seguirlo. Ma ci sono parti di straordinaria difficoltà. Come ho già detto si sente la ricerca che Conrad faceva sulle parole. Quindi ciascuna di esse va pesata. E poi la difficoltà di arrivare a restituire l’immagine di un paesaggio che si costruisce mentre lo si guarda».

«L’altura che si impenna bruscamente alle spalle dei tetti rossi del paese schiaccia la pittoresca High Street contro la scogliera che la difende dal mare. Oltre la diga si incurva per miglia l’ansa estesa dell’arenile di ciottoli, con il villaggio di Brenzett che si disegna scuro di là dall’acqua, una guglia svettante da un grappolo d’alberi; e ancora oltre, la colonna perpendicolare di un faro, in lontananza non più grande di una matita, segna il punto di fuga della terra».

“Amy Foster” | Joseph Conrad | Einaudi | pagina 3

Yanko non parla inglese, gli altri non conoscono la lingua di Yanko. Il problema principale di questi personaggi è la mancata possibilità di tradurre le parole che si dicono. In questo senso il suo lavoro su “Amy Foster” è una sorta di metatraduzione.
«Certo, ho tradotto un testo sull’impossibilità della traduzione, sull’incomunicabilità delle condizioni umane che passano attraverso lo schermo della lingua. Qui sono tutti opposti a uno dal punto di vista linguistico. Per noi che leggiamo è più facile: si tratta di uno e attraverso il racconto che fa il dottor Kennedy, altro personaggio, riusciamo a prenderlo, seguirlo con la nostra immaginazione, sentiamo il suo dolore. Gli appartenenti a quella comunità no. Non riescono a immaginarlo e lo rifiutano, perché la compassione è direttamente proporzionale alla capacità di immaginare l’altro. Sente il dolore di Yanko, invece, Amy Foster, il personaggio del titolo, la ragazza, anche lei in qualche modo emarginata, che ha la capacità di sintonizzarsi con la solitudine del migrante, ma che poi verrà sopraffatta dalla paura».

La lingua, che darebbe una possibilità di sopravvivenza a Yanko, si rivelerà essere la causa del suo annientamento.
«Alla fine vince l’annientamento perché vince la paura, il non ascolto dell’altro. Le lingue sono tutte possibilità di comunicazione, però bisogna ascoltare, a prescindere dalla conoscenza della lingua dell’altro. Invece qui si rafforza la motivazione di buttare Yanko fuori dalla comunità proprio quando lui canta, quando recupera la sua cultura, il suo patrimonio linguistico e lo esprime».

Lo scrittore libico Hisham Matar, che firma l’introduzione di “Amy Foster”, scrive: «Non vivere fra la tua gente o nella tua lingua significa essere sempre altrove». Questa piccola opera sta tutta nel topos principale di Conrad, scrittore dello spaesamento?
«Assolutamente. Matar scrive un piccolo capolavoro; è arrivato al cuore di questa storia. L’altrove del migrante, l’altrove di chi vive dentro un’altra lingua. Ampio lo spazio che Conrad dà al rapporto di Yanko con la sua lingua, che cerca di conservare nel canto, nella tenerezza, nell’ira, nella disperazione, nei momenti di malattia, quando prega. Sono tutte pagine di una bellezza e di una profondità tale che ci fanno comprendere cosa significhi avere dentro una lingua madre».

La lingua è un ostacolo anche quando Yanko cerca di comunicare al bambino che nel frattempo nasce, figlio suo e di Amy, la propria cultura, il linguaggio. Questo non è capito e accettato dalla moglie.
«Il figlio scatena in Amy Foster una paura atavica, che non ha avuto per sé. L’ignoto lei lo ha accolto e se ne è anche innamorata, ma è terrorizzata quando questo ignoto si riversa sulla loro creatura».

«Gli appartenenti a quella comunità non riescono a immaginarlo e lo rifiutano, perché la compassione è direttamente proporzionale alla capacità di immaginare l’altro»

Anche quando Yanko impara la lingua ed è parte della comunità il suo disagio non diminuisce. Secondo lei è una sensazione che le persone migranti costrette a fuggire dal proprio Paese si trascinano dietro tutta la vita?
«Penso di sì e credo che si crei una specie di “nostalgia disinformata” del posto che si è lasciato. Con gli anni ci si costruisce quello che si vuole pensare della propria terra di origine, cioè il fatto che sia una terra accogliente. Tutte le terre si assomigliano. È la nostalgia che fa pensare a Yanko di venire da «un Paese dove anche chi non dà elemosine è gentile con i mendicanti». E poi c’è questa cosa che succede con le vite dei migranti: i figli, le seconde o terze generazioni, generalmente rifiutano la nostalgia del Paese di origine dei genitori e cercano il radicamento nella terra di arrivo. Si verifica dunque anche nei più giovani, che non hanno mai vissuto nel Paese dei genitori, una sorta di spaesamento, però per il Paese che li ha visti nascere e crescere, di cui faticano a sentirsi pienamente cittadini».

Lo spaesamento di Yanko è una condizione che l’emigrante Conrad – che lasciò la famiglia giovanissimo per imbarcarsi su navi francesi e inglesi – conosce bene?
«Sì, ma non li assimilerei, perché le loro “emigrazioni” nascono da condizioni completamente diverse. Però ci sono delle sensazioni che Conrad conosce bene perché vissute in prima persona o viste provare da altri. Ad esempio in “Cuore di tenebra” c’è l’esperienza del ritrovarsi senza punti di riferimento, lo smarrimento totale in un luogo-tempo sospeso, che Conrad ha conosciuto nel Congo belga e nei suoi trascorsi in mare. Il dottor Kennedy, il personaggio che in “Amy Foster” racconta la storia di Yanko, è marinaio. Un altro della galleria dei personaggi conradiani il cui radicamento favorisce una comprensione dello sradicato».

Il racconto sembra descrivere il nostro tempo, sembra che si parli delle persone migranti che arrivano sulle nostre coste… Ci sono fenomeni destinati a non cambiare mai?
«Speriamo di no, però è difficile dopo aver letto Conrad buttarsi in un ottimismo sfrenato. Non era ottimista proprio la sua prospettiva sulla vita, per nascita ed esperienze vissute. C’è però nelle sue opere un riconoscimento della bellezza dell’umanità che dà speranza. E c’è un modo tutto conradiano di rivelarcelo».

Il titolo è composto da nome e cognome del personaggio di Amy Foster. Perché non quello di Yanko Goorall, a tutti gli effetti protagonista del racconto?
«Tra le opere di Conrad questa ha un posto particolare: credo sia il suo unico testo che ha come cuore narrativo un personaggio femminile, anche se in modo indiretto. Questo personaggio rappresenta l’accoglienza, che però riesce a concedere solo per un breve periodo di tempo, il tempo di conoscersi e innamorarsi. Un’accoglienza che non dura. Il personaggio di Amy a dire il vero è marginale, ma ci riporta alla consapevolezza che il destino di Yanko dipende da lei, che dunque il migrante dipende da chi lo accoglie. Il naufrago non è solo in balia delle onde, ma anche di chi vive nelle terre in cui approda. Scegliendo quel titolo Conrad ci dice che questo racconto parla di noi».

«Il destino del protagonista, Yanko, dipende da Amy, dunque il migrante dipende da chi lo accoglie. Scegliendo quel titolo Conrad ci dice che questo racconto parla di noi»

Non a caso Einaudi ha voluto ripubblicare questo racconto, con una nuova traduzione.
«Sarebbe splendido se questo testo oggi lo leggessero in tanti. Ci sono tanti elementi che rimandano a questioni del nostro tempo, a  partire dal fatto che l’autore sia di origine ucraine e che il padre sia stato attivista politico arrestato ed esiliato dalle autorità della Russia zarista. E poi ovviamente i naufraghi. Yanko, che non riesce a spiegare la propria condizione umana, è i nostri migranti, con lo sfruttamento, il pagamento per salire su una nave e guadagnarsi l’America, metaforica e mitologica. Quando vediamo i barconi nel mare, non abbiamo parole che ci arrivino al cuore. In questo testo ci sono. Il corpo della bambina con il vestito rosso restituito dal mare nel racconto conradiano l’abbiamo vista: era il piccolo Aylan, la cui foto ha fatto il giro del mondo. Le parole di Conrad sono un antidoto ai “carichi residuali”».

«Spesso i naufraghi scampati all’annegamento morivano poi miseramente di fame su una costa desolata; altri andavano incontro a morti violente o a schiavitù, trascorrendo anni di esistenza precaria in mezzo a gente per la quale il loro essere stranieri era motivo di sospetto, di odio e di paura. Di queste cose si legge, sappiamo quanto siano penose. È davvero arduo per un uomo scoprirsi sperduto, straniero, indifeso, indecifrabile, di provenianza misteriosa, in qualche oscuro angolo di mondo».

“Amy Foster”, Joseph Conrad, Einaudi, pagina 14

Susanna Basso, lei in ogni momento del suo lavoro si trova a dover scegliere tra una rosa di parole e proporre quella più aderente al testo da tradurre, o più funzionale. Questo le offre lo spunto per riflettere sulle parole che scegliamo in particolari occasioni della nostra vita in cui il linguaggio è fondamentale perché può anche cambiare le cose?
«Ecco il grande dono del lavoro del traduttore! Un lavoro che impone la riflessione costante e la scelta, responsabile, comunque arbitraria, ma sempre di scelta si tratta: un giro di frase, un’enfasi sintattica può modificare il modo in cui leggiamo le cose. L’urgenza del dire è dell’autore, la responsabilità del riferire è del traduttore. In quello spazio muto tra le due cose si costruisce la traduzione. Compito del traduttore è conservare la domanda del testo, non risponderle».

Quale domanda ha conservato nel caso di “Amy Foster”?
«Una domanda necessaria per tutti noi: che uomini siamo se non riusciamo con l’immaginazione a salvarci e salvare?».

«Lui sperava che presto il figlio lo imitasse nel recitare la preghiera come aveva fatto lui da bambino imitando il vecchio padre – nel suo Paese. E scoprii che desiderava tanto vedere crescere il bambino per avere un uomo con cui parlare nella lingua che alle nostre orecchie suonava così inquietante, impetuosa, balzana. Perché a sua moglie dovesse ripugnare quell’idea, non lo sapeva».

“Amy Foster”, Joseph Conrad, Einaudi, pagina 48

Particolare della copertina di “Amy Foster”; Joseph Conrad