10 Novembre 2022

Se la scuola è luogo di ascolto

Alessandro Banfi e il podcast "Maestre e maestri d'Italia". Di ieri e di oggi. Da don Milani a Franco Lorenzoni. Intervista

La nuova versione di Banfi ci dice di accomodarci, o fare anche altro in contemporanea, ma comunque se possibile dotarci di auricolari, e soprattutto ascoltare. Perché il nostro lo fa con quel tono alla “vieni qui che ti racconto una storia davvero bella”. C’è da credergli. E poi perché la scuola, l’educazione dei giovani è una priorità per tutti. La versione di Banfi è un suo programma televisivo di qualche anno fa, e oggi anche una newsletter. Ne prendiamo in prestito il titolo per iniziare questa intervista proprio con lui, Alessandro Banfi, giornalista (è stato direttore di TgCom24), scrittore, autore tv. E podcaster.

Ha scritto e condotto una serie di Chora Media per Vita.it in collaborazione con Fondazione Cariplo. Titolo: “Maestre e maestri d’Italia” (qui le puntate). Don Lorenzo Milani, Maria Montessori, Alberto Manzi, … complessivamente otto figure che hanno fatto la storia della scuola italiana elaborando metodi che sono andati per il mondo. Nel podcast si racconta anche e soprattutto la loro eredità, i tanti maestri di oggi che a quelle figure si ispirano. Citiamo testualmente dal sito di Chora Media: «Questo podcast è dedicato a chi ha speso la vita a far emergere il desiderio di costruire il proprio destino nelle studentesse e negli studenti del nostro Paese».

Ascolta l’intervista integrale ad Alessandro Banfi, con estratti dal podcast:

Banfi, come nasce questo podcast?
«”Maestre e maestri d’Italia” è ideato da Riccardo Bonacina e dalla redazione di “Vita”. L’idea è andare a toccare con mano un problema fondamentale che abbiamo in Italia: il problema dell’educazione, Che cosa mai potrà essere l’Italia del futuro se sottovalutiamo l’educazione? Siamo partiti da questo – che poi è diventato un argomento divisivo a causa dell’iniziativa un po’ improvvida del Governo Meloni di aggiungere la parola “merito” al Ministero della Pubblica istruzione – per guardare i grandi del passato che hanno dato tanto in termini di pedagogia, che hanno lottato perché ai giovani fosse data l’educazione giusta: Montessori, Milani, Manzi, che aveva alfabetizzato tanti italiani. E arrivare ad approfondire cosa questi personaggi possono dire oggi. Come i vari Mario Lodi, Gianni Rodari, don Luigi Giussani, Pierpaolo Pasolini da maestri possono essere incarnati in qualcosa che funziona oggi? Qual è la loro attualità?».

Dall’alto a sinistra, in senso orario: don Lorenzo Milani, Alberto Manzi, Maria Montessori, Mario Lodi, don Luigi Giussani, Pier Paolo Pasolini, Marco Rossi-Doria, Gianni Rodari


La scuola italiana ha spesso elaborato – grazie a figure particolarmente ispirate – modelli educativi che poi sono stati presi a esempio nel mondo. Spesso con poche risorse fornite loro dal sistema. La scuola è amore, sì, cura, attenzione, ma anche creatività, in ogni senso?
«Certo. Nel mio lavoro è emerso in modo molto chiaro che il primo problema è l’ascolto. La prima difficoltà di oggi è ascoltare i ragazzi, un po’ perché non sono abituati a prendere la parola, come ad esempio lo era la mia generazione, quella dei boomer, degli anni ’70. Non prendono facilmente la parola, ma si possono ascoltare anche nei loro comportamenti, nella loro solitudine, nei loro silenzi. Il primo dovere della scuola è cura, attenzione, amore, certo, ma nel senso di ascolto. Il simbolo grafico di questo podcast è un uccellino. Il riferimento è alla favola moderna “Cipì”, inventata da Mario Lodi. Lui inventa quella clamorosa, bellissima favola moderna che è stata tradotta in tutte le lingue, guardando un suo allievo, ascoltando il comportamento di un suo allievo, un bambino che una mattina guardava fuori dalla finestra. Invece di riprenderlo, rimproverarlo, dirgli: stai attento, Mario Lodi si è messo dal suo punto di vista e ha scoperto che stava fissando un uccellino ferito sul tetto di una casa davanti alla scuola. E partendo da quell’ascolto, immedesimandosi in quello sguardo, tutta la classe si è poi messa a pensare, a creare e ha aiutato Mario Lodi a scrivere “Cipì”. Un grande esempio di scrittura collettiva».

I ragazzi oggi non prendono facilmente la parola, ma si possono ascoltare anche nei loro comportamenti, nella loro solitudine, nei loro silenzi

La scuola Penny Wirton a Roma

Oggi ci sono maestre e maestri che nel loro modo di avere a cuore la scuola richiamano quelle figure lì. Ce li racconta nel podcast. Il loro è spesso un percorso a ostacoli?
«Sono stato felice di trovare dei maestri come Eraldo Affinati, Alex Corlazzoli, anche giornalista, scrittore e viaggiatore, Daniela Dabbene – dell’unica scuola Montessori pubblica che c’è a Roma – o la maestra Alice Mingardi a Torre Pedrera, che segue il metodo di Alberto Manzi. Sono tutte persone che operano oggi nella realtà. Ad esempio quando Eraldo Affinati racconta che lui vede nei ragazzi stranieri, nei figli dei migranti e nei migranti stessi che arrivano alla sua scuola di italiano gratuita e per tutti, la Penny Wirton, i ragazzi di Barbiana di don Milani, ha perfettamente ragione. Oggi i poveri, quelli cioè che a vario titolo, in diverso modo, soffrono della povertà educativa, sono soprattutto i ragazzi stranieri. Oppure mi viene in mente FOQUS (Fondazione Quartieri Spagnoli) a Napoli, con quei ragazzi riacciuffati dalla strada. Ecco, quello è un grande esempio di come la grande tradizione educativa italiana può non essere buttata via. E bisogna dire grazie a gente come Rachele Furfaro, che ha seguito le orme di Marco Rossi-Doria, primo maestro di strada a Napoli, nel recupero di queste persone».

Alex Corlazzoli, Cremona, registra il suo intervento per il podcast

Nel primo episodio si va dalle colline del Mugello, vicino Firenze, con la scuola di Barbiana di don Milani, alla periferia di Roma, Casalbertone. Dove, appunto, lo scrittore Eraldo Affinati ha fondato la scuola Penny Wirton, che poi ha gemmato in tante altre città d’Italia.

ERALDO AFFINATI (dal primo episodio: “ERALDO AFFINATI E IL SEGRETO DI BARBIANA”): «Lo sguardo di Mohamed. Quando lui entra, ti guarda. Si aspetta qualcosa da te. Nel momento in cui tu dai quello che lui vuole, cioè non solo la nozione ma la fiducia, quello è il momento germinale delle scuole Penny Wirton, quello è il momento in cui i ragazzi torneranno. Qui c’è un passaparola, per cui alla fine noi abbiamo centinaia, migliaia di persone in tutta Italia che continuano ad arrivare perché ritrovano lo stesso spirito di unità, di fiducia e di rigore. Ci tengo a ribadirlo perché non è un intrattenimento quello che noi facciamo. Due ore il pomeriggio significa imparare veramente uno a uno la nostra lingua. Partendo dalla loro posizione, non da un programma da svolgere né da un voto da assegnare. Quindi fiducia reciproca. Attenzione perché sono ragazzi che magari durante la giornata hanno sentito lo sguardo sprezzante di qualcuno che è passato accanto a loro, magari salendo sull’autobus o camminando per strada. Quando arrivano qui e invece sentono la fiducia, sentono che noi li trattiamo con tutti gli onori, come signori studenti, sono rinfrancati e lo siamo anche noi. Ci fa capire che questo elemento affettivo, emotivo è insostituibile».

Banfi, l’elemento affettivo di cui parla Affinati è fondamentale sempre?
«Sì, è fondamentale e lo dimostrano le scienze moderne. Il legame affettivo non è sganciato dall’apprendimento, non c’è un cervello staccato da un cuore. Le neuroscienze ci hanno aiutato a focalizzare in modo oggettivo, scientifico che il rischio educativo si gioca proprio fra le due libertà: la libertà dell’insegnante e la libertà del ragazzo, dello studente. E che l’aspetto emotivo, appunto, non può essere sganciato dall’aspetto intellettuale, perché la prima emozione è quella del cervello, da un certo punto di vista. Io ripeto spesso la distinzione che è cara alla logica atomistica, domenicana classica fra emozione e sentimento. L’emozione è qualcosa che ti muove e l’educazione – come dice la parola stessa – è di per sé un movimento, deve essere un movimento. Se non c’è il movimento non ci può essere educazione. Poi dopo arriva il sentimento, che ha la stessa radice – dice San Tommaso –, è una sentenza del cuore, qualcosa di stabile. L’emozione scappa via. Quel bambino che guarda l’uccellino in “Cipì” vive quell’attimo fuggente che il maestro afferra e rende stabile. Lo fa diventare una favola, lo fa diventare un sentimento».

«Il bambino che guarda l’uccellino in “Cipì” vive quell’attimo fuggente che il maestro afferra e rende stabile. Lo fa diventare una favola, lo fa diventare un sentimento»

Affinati ha scritto due libri su don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana. Una scuola per gli ultimi. A parte il caso particolare di Affinati con le persone migranti, oggi sarebbe bello sopravvivesse in tutti l’attenzione che Milani ha avuto per chi viveva ai margini. Ma una scuola per gli ultimi ha ancora senso?
«Mi verrebbe da dire che la scuola è sempre degli ultimi, nel senso che secondo me non esiste la categoria degli ultimi, dei poveri, di quelli rimasti indietro. Rimaniamo tutti indietro da un certo punto di vista. Sempre. Allora l’attenzione che don Milani ha per i ragazzi di Barbiana è paradigmatica non tanto perché loro sono socialmente in una posizione diversa dai figli dei ricchi. Il meccanismo educativo non fa differenze. L’articolo 34 della nostra Costituzione parla di superare questa differenza, queste disuguaglianze che ci sono nella nostra società, ma quando dice che va rispettata l’uguaglianza, la Costituzione sa che la cosa non è realistica. Ci saranno sempre differenze. Ci sarà sempre uno che resta più indietro dell’altro. Allora la scuola è una grande opportunità di uguaglianza, nel senso che – e qui la polemica sul merito può essere utile se ci porta ad arrivare a questa conseguenza – tutti devono avere la possibilità di migliorare, di crescere, di essere educati. Tutti in qualche modo sono gli ultimi da recuperare. Ognuno partendo dal suo livello. Mi verrebbe da dire: ognuno partendo dalla sua povertà. Se poi andiamo invece sul piano pratico, allora dico che Affinati ha ragione: gli ultimi di oggi sono sicuramente i figli dei migranti».

Per l’episodio su Maria Montessori, lei è andato nella scuola pubblica che si rifà al pensiero della pedagogista. Ancora a Roma. Lì ha incontrato la maestra Daniela, che è stata allieva della scuola Montessori e nella stessa scuola oggi insegna. Un estratto da quello che le ha detto:

DANIELA DABBENE (dal terzo episodio: “L’ESPERIENZA, I SENSI E L’ALFABETO DELLA PACE” | MARIA MONTESSORI”): «Lei aveva capito che questo momento fragile del bambino, 0-6, quando quasi l’adulto non lo considera neanche pronto per imparare, in realtà è il periodo più importante della vita di ognuno di noi. C’è una bellissima espressione addirittura sullo 0-3, quindi i primi tre anni di vita, che lei chiama “i mille giorni che contano”. Fa un po’ tremare le ginocchia pensare come l’infanzia sia ancora oggi così trascurata, che ci sia ancora così poca attenzione in un mondo in cui sembra che ci si occupi solo dei bambini, ma il tema è: come ci occupiamo di loro? Quindi questo ricoprirli di tutto, ma di un tutto che magari non è l’essenziale di cui hanno bisogno».

Banfi, c’è da riflettere, e non poco, sulle parole della maestra Daniela.
«La nostra società è un po’ paradossale da questo punto di vista. I bambini sono sempre meno. Si fanno sempre meno bambini. Abbiamo – lo sappiamo tutti – il serio problema della natalità mancata. Non avere in mente i bambini vuol dire non pensare il futuro. E poi il modo in cui ci si occupa oggi dei bambini: sono dei piccoli consumatori, non gli uomini di domani. Soprattutto non hanno – come invece voleva Montessori – la dignità di un loro pensiero. I bambini ce l’hanno eccome un loro pensiero! Quando arrivano a scuola in prima elementare sanno parlare, sanno camminare. Sono già in qualche modo dei piccoli miracoli, che si tratta solo di assecondare, si tratta solo di far venire fuori. Però oggi questo non è più tematizzato».

«I bambini quando arrivano a scuola in prima elementare sanno parlare, camminare. Sono già in qualche modo dei piccoli miracoli, che si tratta solo di assecondare, di far venire fuori»


Un’altra figura che lei Banfi ci aiuta a riscoprire anche attraverso delle testimonianze è Alberto Manzi, educatore ricordato soprattutto per il programma televisivo “Non è mai troppo tardi” degli anni ’60, un vero e proprio corso di italiano. Nell’episodio a lui dedicato viene letta una lettera di commiato dello stesso Manzi scritta nel 1976 ai suoi studenti di una quinta elementare. Potrebbe essere scritta oggi…
«La cosa meravigliosa di questa lettera di Alberto Manzi è che ci fa capire quanto l’educazione di un grande maestro riguarda il tuo destino. Cioè, l’insegnamento di un grande maestro è un grande viaggio. Un viaggio che si fa insieme. Allora in quella lettera è come se lui dicesse: abbiamo fatto un pezzo di vita insieme, una buona vita. Però lo dice in un modo profondo, sentito, commosso, di qualcuno che ha condiviso davvero, ha preso sul serio quei ragazzi, come compagni di vita. Come compagni di destino. È quello il senso della lettera che ancora oggi commuove e potrebbe davvero essere stata scritta oggi, perché ha una forza enorme».

E poi c’è il maestro Franco Lorenzoni, che si ricollega all’esperienza di Mario Lodi.

FRANCO LORENZONI (dal terzo episodio: “IL PAESE – È ANCORA – SBAGLIATO? | MARIO LODI”): «L’idea che in Italia ci siano 2.500.000 di ragazze e ragazzi che non studiano e non lavorano dovrebbe tenere svegli la notte chiunque governi, chiunque si occupi della cosa pubblica, perché è una tragedia nazionale. Perché è la sconfitta dell’idea che con la conoscenza si cresce. Perché che non lavorino è un problema economico ovviamente molto complesso, ma che abbiano smesso di studiare vuol dire che non hanno fiducia nel fatto che la conoscenza li aiuta a vivere meglio. E lì tutti noi insegnanti dovremmo farci una grande domanda. La dispersione scolastica in certe zone del Paese raggiunge il 30 per cento. Pazzesco! Ma c’è anche un’altra dispersione nascosta: molti ragazzi vanno a scuola ma è come se non ci andassero. Stanno altrove, diciamo così. Vuol dire che in questo percorso, in questi anni passati nella scuola, non hanno trovato quella connessione che dicevo prima, cioè la connessione tra se stessi, la propria crescita e gli oggetti culturali. Non hanno trovato la ricchezza di questa tensione, di questa relazione».

Banfi, un commento.
«Questo scandalo di chi né studia né lavora dovrebbe essere una cosa che non dà tregua. Ho trovato Lorenzoni molto lucido quando sono stato a trovarlo nella sua casa laboratorio di Cenci dove da 40 anni accoglie un sacco di scolaresche che vanno a fare corsi di aggiornamento insieme ai loro insegnanti, dalle elementari all’università. È un’esperienza molto bella quella che si può fare con Lorenzoni, perché lui, secondo me, fa capire fondamentalmente l’importanza dello spazio e del mondo, del cielo e della terra, del bosco e del proprio io. Come dice Italo Calvino, noi esseri umani capiamo chi siamo in relazione allo spazio che viviamo, alla realtà in cui siamo immersi. Ecco, Lorenzoni ha chiara questa cosa in modo molto preciso. Prendendo le mosse proprio dalla lezione di Mario Lodi l’ha sviluppata, non solo con attività teatrali, ricreative, le canzoni, le passeggiate: la sua idea è che gli studenti di oggi soffrono della “claustralità”, l’essere chiusi nelle scuole. Può stare un ragazzo seduto otto ore nella stessa posizione? È una cosa assurda. Abbiamo costruito un sistema che è quasi inapplicabile, se visto in modo oggettivo. Lui propone invece di andare lì e vivere un’esperienza a tutto tondo, riappropriarsi del cielo e della terra».

«Ma un ragazzo può stare seduto otto ore nella stessa posizione? È una cosa assurda. Lorenzoni propone invece di vivere un’esperienza a tutto tondo, riappropriarsi del cielo e della terra»

Franco Lorenzoni

Franco Lorenzoni in più di un’occasione ha ricordato quanto sia importante che la scuola si apra al territorio, che collabori con chi si occupa di sociale, che i bambini frequentino più luoghi educativi, con la scuola, ovvio, al centro… In questo senso vede che qualcosa si muove?
«Nell’ultima puntata del podcast, quella dedicata a don Luigi Giussani, c’è una storia molto interessante, con il preside Angelo Lucio Rossi che racconta proprio dei patti territoriali che il suo istituto, la sua scuola pubblica ha fatto nella periferia di Milano. È molto interessante quell’esperienza, perché dimostra che quando la scuola si attiva sul territorio diventa importantissima, diventa una luce accesa per il territorio stesso. C’è una biblioteca aperta fino a tardi la sera, tenuta aperta da pensionati volontari dello stesso quartiere. C’è il doposcuola per tanti ragazzi che rischiano di restare indietro, la maggioranza – guarda caso, un po’ come alla Penny Wirton – migranti o figli di migranti. C’è l’idea che i patti vengano fatti con le associazioni sportive, con le associazioni di volontariato, con coloro che si occupano di persone disabili, che si occupano di realtà sociali degradate. L’esempio di Angelo Lucio Rossi, di questo preside coraggioso della scuola – secondo me – più avanti d’Italia dal punto di vista dei patti territoriali, ci dice che ci sono sulla carta gli strumenti e le possibilità legislative, non solo per la buona scuola, quella di Renzi, ma per tante altre norme che via via anche sul Terzo settore sono state approvate. C’è la possibilità di fare qualcosa. E c’è chi in Italia fa qualcosa. Il problema è che queste esperienze andrebbero moltiplicate, allargate».

«Quando la scuola si attiva sul territorio diventa importantissima, diventa una luce accesa per il territorio stesso»

A proposito di podcast. Questo ritorno dell’audio, con un consumo che cresce sempre più di podcast e audiolibri, ci dice di una maggior desiderio di ascoltare, di fame di contenuti che vanno consumati senza fretta, in un lasso di tempo più dilatato, di voglia di approfondimento, capire un po’ di più le cose.
«Ma sì, anche io scoprendomi podcaster, tra l’altro a un’età un po’ avanzata, mi sono chiesto perché piaccia questo mezzo. Io in passato ho fatto radio, ma secondo me il podcast è un po’ diverso. Dà più occasione di valorizzare la voce, che è sempre bellissima. La voce, la musica, i suoni, i rumori sono affascinanti perché lasciano un pezzo alla nostra immaginazione. L’aspetto fondamentale del podcast – questa è la conclusione provvisoria a cui io sono giunto per spiegare il successo incredibile di milioni di persone che ascoltano questi frammenti audio via computer – è che dà vita a un rapporto intimo, diretto. Tu ascoltatore mi scegli, io podcaster parlo solo a te in quel momento. Ho qualcosa da dire a te. È un rapporto importante, privilegiato, un rapporto che può diventare di empatia, vissuto attraverso la voce. E allo stesso tempo un rapporto che non appiattisce come può invece appiattire l’immagine video – e lo dico io che ho fatto per tanto tempo televisione. Mi faccio immaginare perché la sola voce, il solo audio ha questa caratteristica. È un po’ come leggere un libro, con la differenza che quando uno legge un bel libro poi va al cinema a vedere la riduzione cinematografica e sente, appunto, che è una riduzione, perché il libro ti fa sognare, ti fa volare, c’è un pezzo della tua personalità che entra in azione, in relazione».

Alessandro Banfi

Tornando a “Maestre e maestri d’Italia”, otto puntate su choramedia.com e sulle principali piattaforme audio. Ne rilasciate una a settimana. Mentre parliamo ne sono state pubblicate cinque. Alessandro Banfi, quale tra le otto figure ispiratrici avrebbe voluto fosse stato il suo maestro e perché? Sono tutte figure grandissime, ma dovendo sceglierne una?
«Io ho avuto la fortuna di aver conosciuto don Giussani quando avevo 16 anni, quindi mi considero indegnamente un suo allievo. Mi portò da lui il mio professore di latino e greco del liceo classico di Torino, che si chiamava Luigi Tropia e che è stato un grande maestro per me. Quindi io penso che i maestri possono essere più di uno, e che nella vita uno sa bene a distanza di anni che cosa certi insegnanti, certi maestri gli hanno dato. Mi sarebbe piaciuto tantissimo conoscere don Milani, mi sarebbe piaciuto conoscere Pasolini, Maria Montessori, Gianni Rodari… Quanto sarebbe stato bello essere allievo di Alberto Manzi? Basta leggere quella lettera! Nessuno di loro mi avrebbe deluso. Sono stati grandi maestri. Ognuno in modo diverso. Ma tutti avevano una cosa in comune: introducevano la realtà. Nessuno introduceva se stesso. Per questo sono rimasti grandi».