25 Luglio 2023

Un vertice contro la fame?

Perplessità sulle riflessioni del Vertice FAO in corso a Roma

Piace molto ai giornalisti poter dire che la fame è aumentata a causa della pandemia e che il Vertice sui Sistemi Alimentari Mondiali, che si tiene a Roma dal 24 al 26 luglio, rappresenta il modo in cui la comunità globale sta offrendo una risposta a questi problemi. E piace molto ai vertici della FAO poter confermare questa idea, richiamando la necessità di un esercizio di multilateralismo come quello di questo vertice, specialmente nel tempo complicato che stiamo vivendo.

È un peccato che in questo quadro così coerente ci siano alcuni elementi che non tornano.

NON TORNA IL FATTO che la fame è in aumento da ben prima della pandemia: secondo un recente rapporto della FAO le persone colpite da insicurezza alimentare media e grave sono passate da 1,6 miliardi nel triennio 2015-16 a 2,3 miliardi nel triennio 2022.

NON TORNA IL FATTO che assieme alla fame stia aumentando anche la produzione pro capite globale di granaglie, così come l’obesità in tutti i continenti, e in tutti i Paesi. Più che di un problema di carenza assoluta – ricordandoci della lezione del premio Nobel Amartya Sen – dovremmo parlare di un problema di accesso e anche di disfunzionalità dei sistemi alimentari, sia in termini di produzione che in termini di consumo.

ANCHE L’IDEA di un (necessario!) rilancio del multilateralismo è purtroppo ben lontana dall’essere la realtà del vertice che si apre a Roma: il multilateralismo vero è quello che esce da un dialogo intergovernativo, dove sono i governi a negoziare tra di loro su un piano paritetico quali iniziative devono essere assunte, e a offrire dei quadri di riferimento a cui gli attori globali devono conformarsi.

In questo caso avviene esattamente il contrario: i grandi stakeholders sono precisamente quelli che hanno avuto l’incarico diretto di costruire questo esercizio, coinvolgendo certo stati e governi, ma a valle di orientamenti già assunti in modo non sempre del tutto trasparente; il rischio è quello di una prevalenza di questi orientamenti e questi interessi, come ha denunciato un’ampia coalizione di organizzazioni sociali, movimenti dei produttori e popoli indigeni.

La preoccupazione è per una progressiva torsione delle strutture di governance globale delle politiche del cibo.

Lo spiega un recente rapporto dedicato a questo argomento: nonostante le esplicite promesse fatte dal vicesegretario generale delle Nazioni Unite sul fatto che non sarebbero state create nuove strutture, è stato istituito un nuovo hub di coordinamento dei sistemi alimentari dell’ONU, ospitato dalla FAO e guidato congiuntamente dal vicesegretario generale e dai vertici della FAO, del PAM, dell’IFAD, dell’OMS e dell’UNEP.

La nuova struttura è dotata di un budget biennale di 14 milioni di dollari, più del doppio del budget del preesistente Comitato per la Sicurezza Alimentare – CFS.

È stato proprio il CFS a rappresentare negli ultimi anni uno spazio di partecipazione aperto e riconosciuto, costruito secondo un chiaro riconoscimento della responsabilità dei governi, con il concorso di rappresentanti di attori del settore privato, dei movimenti sociali, dei produttori, dei popoli indigeni.

L’architettura del nuovo Coordination Hub invece non include i governi nazionali nella sua struttura di governo, e prevede una nuova interfaccia di supporto scientifico e di partecipazione che sembra duplicare proprio le funzioni del CFS. Questa nuova struttura, tuttavia, adotta una prospettiva molto più favorevole alle imprese, secondo un approccio in cui i temi relativi alla regolamentazione o sui limiti all’espansione e alla concentrazione del potere economico del settore privato sono vistosamente assenti, così come manca ogni caratterizzazione delle politiche alimentari in base ai principi dei diritti umani. Anche Caritas Internationalis si è espressa in termini critici, mettendo in rilievo il rischio di una sempre maggiore cattura corporativa dei processi di governance globale delle politiche del cibo, e i rischi di un approccio che non riconosca con chiarezza la dimensione dei diritti.

Se i governi sono sostanzialmente emarginati in questo esercizio, non hanno un ruolo centrale neanche gli attori non statali:

il coinvolgimento della società civile e delle associazioni dei produttori è avvenuto in modo tardivo e insufficiente, come dimostra anche quanto avvenuto in questi giorni, in cui tra coloro che hanno partecipato alla consultazione nazionale italiana si sta diffondendo l’impressione che si stia semplicemente cercando di ottenere una mobilitazione della società civile finalizzata a riempire le sale degli eventi del vertice, invece che l’avvio di un serio dialogo sulle politiche agricole e alimentari nel nostro Paese.

Una rappresentazione anche un po’ trionfalistica nei giorni del vertice da parte del Paese che lo ospita è comprensibile, ma colpisce l’approccio; e la completa assenza di discussione sui temi in questione. A partire dalla dichiarazione di un importante politico che giustifica il vertice con l’idea che «i Paesi ricchi devono tendere la mano a quelli più poveri»!

Forse il problema non è tendere la mano, ma rompere i meccanismi di ingiustizia che rendono poveri i poveri, e li mantengono tali.

E può darsi che stiamo chiedendo di trovare lo spazio per una svolta proprio a coloro i quali si trovano al centro dei meccanismi che vorremmo cambiare!

Ogni occasione in cui si mettono insieme le idee di tutti è certamente importante, ma il modo in cui lo si fa è ugualmente decisivo.

Il rischio è che le soluzioni proposte aggravino i problemi invece di risolverli.

E che una certa retorica giornalistica, sostenuta da una imponente comunicazione istituzionale, non aiuti a capire alcune tensioni e contraddizioni che attraversano il mondo in cui viviamo.