17 Ottobre 2023

Come alberi sradicati. O no

Conoscersi è l'unico modo per abbattere gli stereotipi. Dal subcontinente indiano all'Italia. Una testimonianza dal nuovo Rapporto Immigrazione Caritas e Migrantes

La testimonianza che segue è contenuta nel XXXII Rapporto Immigrazione 2023 Caritas e Migrantes “Liberi di scegliere se migrare o restare”. Per saperne di più

*Unione Induista Italiana – Sanatana Dharma Samgha

La presenza induista in Italia è stimata intorno alle 150 mila persone secondo il Rapporto Eurispes 2019. Di queste, circa 104 mila sono cittadini immigrati, prevalentemente da India, Sri Lanka, Bangladesh e Mauritius. Emblematica l’immagine fornita da una giovane donna migrata dal Punjab, in Italia da ormai più di vent’anni:

«Siamo come alberi che si sradicano dalla propria terra. Una volta sradicato un albero non cresce mai alto! A meno che…».

Vi sono racchiuse difficoltà, malinconia, sfide e speranze; significativa, tuttavia, la chiosa: «a meno che»! Qui si cela una doppia responsabilità, una chiamata vicendevole all’impegno e alla cura, sia per chi emigra sia per chi è sollecitato ad accogliere.

«A meno che…» le radici sradicate non trovino un terreno ben arato e fertile da poterle prendere a dimora. L’Italia, nella percezione generale degli induisti, è un terreno simile. L’immagine dell’albero trasmette la ricchezza che ciascun essere trae con sé, migrante e non. Ognuno è dono di diversità, pari alla biodiversità in natura, fonte di vita. Inevitabilmente ogni trapianto si accompagna ad una crisi, che richiede di mettersi in gioco, di coltivare un’attitudine combattiva e resiliente.

La difficoltà iniziale è sicuramente legata alla quotidianità del vivere, o meglio, al “gusto” della quotidianità che ingloba clima, cibo, vestiario, simboli, colori, odori. Si pensi, ad esempio, all’alimentazione ricca di spezie o agli abiti tradizionali, coloratissimi, leggeri, molto diversi dalla moda occidentale. Le prime criticità sono legate alla lingua, al districarsi tra leggi e burocrazia, all’impossibilità di muoversi in autonomia, soprattutto per le donne. Spesso non si conoscono la cultura e le usanze del Paese in cui si emigra.

Viceversa, il Paese ospite ignora, il più delle volte, le usanze dei migranti, o, peggio ancora, le farcisce di pregiudizi e stereotipi tali da alimentare diffidenza e fraintendimenti, fino a processi di ghettizzazione.

Della società occidentale, i migranti induisti lamentano spesso l’indebolimento progressivo del senso comunitario in favore di uno più individualista. Uno stile di vita che inficia il ruolo dell’anzianità, che invece mantiene un grande valore nei Paesi di origine. Ciò spiega anche il perché si registra un’ampia percentuale di migranti impiegati come infermieri e assistenti nelle RSA.

Nei villaggi e nelle città di origine la vita comunitaria è molto partecipata. Da ciò, l’insegnamento della semplicità: saper apprezzare ciò che si ha, e sapere che la vera gioia nasce da e in Dio. Nella tradizione induista andare al tempio non è un obbligo; è sufficiente il rituale domestico, puja. Tuttavia, il tempio (mandir o kovil) è uno strumento importante di aggregazione sociale, di intercettazione delle necessità dei più fragili.

Anche da questo punto di vista, in quarant’anni in Italia le cose sono cambiate molto. Inizialmente vi era solo il tempio nel Matha Gitananda Ashrama di Altare (Sv); oggi, sebbene il percorso sia ancora tortuoso, i luoghi adibiti al culto sono cresciuti.

Necessità molto forte delle famiglie è quella di favorire la trasmissione della lingua e delle tradizioni di origine alle nuove generazioni. Per tale motivo, l’Unione Induista Italiana, oltre all’insegnamento dell’italiano per le prime generazioni, ha avviato corsi di lingua sanscrita per bambini, pubblicazioni di testi e storie tradizionali tamil, panjabi ecc.

Le radici di molti hanno attecchito, e ciò si comprende perché la nuova vita è, in fondo, felice. Questa “terza cultura”, nata dall’incontro delle due, si esalta nella celebrazione della festa.

Esempio concreto è la Dipavali, la festa della Luce. L’Unione Induista Italiana celebra questa ricorrenza in sede istituzionale al Senato a Roma, alla presenza di autorità politiche, religiose, accademici, giornalisti e tutti i rappresentanti delle comunità induiste in Italia. Il momento istituzionale è affiancato sempre da un festival di arte e cultura celebrato in teatri prestigiosi sia della Capitale sia di altre città.

Questa festa è motivo di grande orgoglio per gli induisti in Italia, perché si sentono davvero cittadini italiani all’interno dei luoghi istituzionali e, al contempo, felici di poter condividere con il territorio le tradizioni rituali, i cibi, la danza e la musica.

Nel periodo di Dipavali, che cade sempre tra ottobre e novembre, l’Italia si accende di luci e di Luce, dalla Valle del Brenta a Palermo, per testimoniare l’incontro di persone; uno scambio di doni, di gioia e di coesione umana, per vincere insieme le oscurità dell’individualismo e della diffidenza, e celebrare la vittoria del bene, della conoscenza e dell’amicizia reciproca.

Aggiornato il 17/10/23 alle ore 10:17