Un fiume, il confine
Thakhek, Laos. Cinque ragazzi siedono sulla riva del fiume Mekong, che segna il confine con la Tailandia. Sull’altra sponda ci sono dei festeggiamenti, e l’aria vibra: musica, luci colorate, basse frequenze che attraversano il fiume e rompono il silenzio nella piccola città laotiana.
“Guardate,” dice Bounmy sorridendo, “di là i palazzi sono più alti, le luci più brillanti”.
È un contrasto visibile, immediato. Ma ciò che separa i due lati non è solo un fiume: da un lato, la Tailandia, con un’economia vivace e diversificata; dall’altro, il Laos, Paese rurale tra i più fragili del Sud-Est asiatico.
Il Laos conta circa 7,2 milioni di abitanti, in gran parte di tradizione buddhista, ed è un Paese prevalentemente agricolo. La sua economia, che si regge ancora soprattutto su un’agricoltura di sussistenza e sull’estrazione di risorse naturali, è in lenta crescita ma con forti elementi di instabilità e disuguaglianze molto marcate tra città e zone rurali. Il Paese affronta inoltre problemi come insicurezza alimentare, scarsità di strutture sanitarie, malnutrizione e bassi livelli di scolarizzazione, soprattutto tra le donne. Grandi progetti infrastrutturali e concessioni minerarie e agricole hanno sottratto terre e risorse a comunità già vulnerabili e contribuito ad aumentare il degrado ambientale. Quasi un quinto della popolazione vive sotto la soglia nazionale di povertà. In questo contesto, più che un’opzione partire sembra essere l’unica speranza possibile per immaginare e progettare il futuro.
È per questa ragione che, ogni anno, migliaia di giovani laotiani attraversano il Mekong per andare a lavorare in Tailandia. Alcuni lo fanno attraverso vie legali, molti altri lo fanno invece di notte, a bordo di piccole barche, senza documenti validi. La Tailandia attira oltre il 90% dei migranti laotiani, sia per la prossimità geografica, che per la vicinanza linguistica e culturale, nonché per la presenza di reti sociali già consolidate.

Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, circa 1,3 milioni di laotiani vivono all’estero. Oltre alla Tailandia, le destinazioni principali sono Stati Uniti e Francia, ex potenza coloniale in loco, seguite da Australia e Canada.
Il fenomeno migratorio crescente, soprattutto tra i giovani, porta con sé a un aumento dell’abbandono scolastico: l’istruzione sembra non essere più il miglior investimento né per i ragazzi né per le loro famiglie, là dove la prospettiva rimane quella di emigrare ad ogni costo. I titoli di studio, infatti, non riescono a garantire un buon lavoro né in Laos né tanto meno in Tailandia, dove i lavoratori laotiani sono richiesti soprattutto per lavori poco qualificati e scelti per le loro capacità manuali. In Tailandia i migranti trovano impiego nell’edilizia, nell’agricoltura, nelle fabbriche tessili o come domestici. Molte giovani donne sono coinvolte nella prostituzione, lavorano in bar e locali notturni, nei casinò del nord del Laos o nelle città minerarie gestite da imprese cinesi, dove sono esposte a sfruttamento, violenza e malattie. Si tratta di lavori pesanti e degradanti, poco pagati e svolti senza contratti o protezioni, ma spesso in grado di generare rimesse vitali per le famiglie rimaste in Laos.
Nel 2023, le rimesse inviate dai migranti in Laos attraverso canali ufficiali hanno raggiunto circa 287 milioni di dollari, pari all’1,42 per cento del PIL nazionale. Pur essendo una percentuale relativamente bassa, queste entrate restano essenziali per molte famiglie. La dipendenza dalle rimesse rischia però di frenare lo sviluppo locale, riducendo gli investimenti in attività produttive e infrastrutture, e rendendo le comunità vulnerabili a choc che riducono o interrompono il flusso di denaro.
La storia di Somchai
Somchai, fratello di Bounmy, è partito dal suo villaggio vicino a Thakhek, Laos, per lavorare come manovale nei pressi di Nakhon Phanom, Tailandia. Ottenere un permesso regolare avrebbe richiesto costi e tempi insostenibili per la sua famiglia, perciò lavorava senza contratto né assicurazione. Un giorno è caduto da un’impalcatura. Invece di essere soccorso, è stato subito riconsegnato al Laos su una barchetta precaria, gravemente ferito, per evitare problemi con le autorità tailandesi.

Oggi Somchai vive con danni cerebrali e gravi difficoltà motorie. La sua partenza era stata motivata dal desiderio di aiutare la famiglia; ora è la famiglia a doversi prendere cura di lui, giorno dopo giorno.
La vicenda di Somchai assomiglia certo a tante testimonianze di migranti in diverse parti del mondo, Italia compresa, in cui lo stato di estrema vulnerabilità emerge in maniera lampante: l’assenza di tutele espone i migranti a rischi estremi, nei settori più duri e meno protetti: agricoltura, edilizia, logistica, con subiscono orari massacranti, salari da fame e condizioni igienico-sanitarie inaccettabili. È così che, troppo spesso, la ricerca di speranza e dignità si trasforma in tragedia.
Attraverso i confini, verso la speranza
Il Laos è quasi esclusivamente un paese di emigrazione, il vuoto di opportunità motiva i giovani ad intraprendere vie poco sicure e illegali pur di intravvedere un futuro possibile.
Caritas Italiana accompagna la Caritas in Laos sia per strutturare il proprio impegno nel territorio, che per sostenere un progetto a fianco delle comunità più fragili, così da accrescere l’informazione e la formazione rispetto ai rischi legati alla migrazione insicura e non legale, compresa l’esposizione a fenomeni legati al traffico di esseri umani. Oltre ad offrire strumenti concreti ai potenziali migranti, il progetto mira al sostegno delle famiglie che restano indietro. Attraverso programmi di sensibilizzazione, percorsi di formazione professionale e la creazione di reti comunitarie di mutuo aiuto, l’obiettivo è trasformare la migrazione da ferita sociale a scelta consapevole e strutturata, capace di generare sviluppo.
Le storie e le sfide vissute in Laos diventano uno specchio anche per noi: ci ricordano che la sofferenza resta spesso invisibile, nascosta nei solchi dei campi o tra le onde del mare.



