31 Agosto 2023

«… E mi sento come loro»

La testimonianza di Eleonora, per un anno in Thailandia insieme ai bambini: «In questi volti c'è un desiderio, piccolo, di apertura, come un timido luccichio lontano che desideri, in qualche modo, raggiungere e svelare»

Eleonora con alcune bambine

L’altro giorno in mensa un bambino mi si avvicina tutto preoccupato: «Teacher, teacher! Hai una cosa bianca nei capelli! Te la tolgo io!». Ero seduta, lui si mette dietro di me e mi strappa di netto un capello. «Ecco, teacher… Ma ce ne sono anche altri!». Ho dovuto fermarlo e spiegargli che mi piacciono i miei capelli bianchi, non pensavo fossero così evidenti, ma è normale che ci siano e io mi sento me stessa così.

Tutto questo, in inglese. Lui ha 10 anni, uno di tre gemelli, e sa parlare fluentemente thailandese e inglese ma non sa leggere né scrivere nessuna delle due lingue. Ha imparato l’inglese guardando i video su YouTube; è infatti un caso eccezionale. Non è purtroppo un nostro studente ma ormai è per me un piccolo amico.

Si intrufola nei miei momenti vuoti fra una classe e l’altra o durante la pausa pranzo e mi racconta le sue storie. Io lo aspetto e non vedo l’ora di ascoltarlo.

Ha un nome di tre lettere che inizia per “N” come i suoi fratelli. Lui è il più estroverso. Ce n’è un altro che si avvicina e ci saluta ma poi non riesce a parlare in inglese e il terzo l’ho visto solo da lontano. Alla lunga, quando padroneggerò meglio la lingua locale, mi piacerebbe conoscerli insieme tutti e tre.

Comunque qua in Thailandia con i nomi va così: hai il tuo nome, spesso lungo e complicato, e un soprannome, che ti danno solitamente i genitori alla nascita e che è quello che poi usi. Sono corti i soprannomi e spesso ricordano animali, elementi naturali, acqua, pioggia, o cibo, arachidi, anguria e sono sia parole thailandesi che parole inglesi.

I bambini thailandesi hanno spesso delle dentature… interessanti.

Una cosa abbastanza comune è un terzo dente fra i due incisivi superiori, un piccolo dentino piazzato lì non si sa per quale motivo.

E poi carie, carie a non finire che consumano i denti fino a farli diventare dei monconi marroncini e appuntiti. Eppure c’è un momento della giornata, dopo pranzo, in cui i bambini a scuola si lavano i denti. Usano solo l’acqua, temo. Per poi ricominciare a nutrirsi di bevande zuccherate e canom (dolcetti).

Pochissimi indossano gli occhiali, un paio su 200 studenti che ho. Mi sembra una cosa rara anche nelle persone adulte: mi ritrovo spesso infastidita dalle lenti che si appannano per l’umidità o la salsedine o il sudore e non ho nessuno con cui condividere questa quotidiana operazione di mantenimento degli occhiali perché non incontro persone che li indossino. Poi però c’è il bambino che si accovaccia in terra col quaderno sul banco del compagno in prima fila perché «teacher, non riesco a vedere».

C’è anche quello che si nasconde sotto al tavolo e devo periodicamente passare di lì e invitarlo gentilmente a uscire fuori. Lui mi guarda e mi sorride.

E quello che ogni tanto si alza e balla. Della serie: «Teacher, ma non lo vedi che ho 8 anni e sono strapieno di vita?».

Ci sono anche quelli che testa sul tavolo e dormono, durante la lezione. Nel momento della pausa, alcuni arrivano a stendersi per terra con la cartella come cuscino. È consono, ho imparato, lasciarli dormire, perché fa caldo e sono stanchi e sono abituati così.

Indossano tutti la stessa uniforme, presumibilmente fornita dalla scuola, come i quaderni e le cartelle, camicetta e pantaloncini i maschi, gonne le femmine, e ai piedi tutti gli stessi calzini. Le scarpe le portano infilate a metà per spostarsi da un’aula all’altra o nel cortile, poi le lasciano in fila fuori dall’aula. Un lungo serpente di scarpette bianche di tela. Non ne ho la prova ma immagino capitino spesso degli scambi involontari.

I calzini sono il capo più vissuto, il mio preferito: buchi di ogni genere e misura, aperture che mostrano appieno tutte e cinque le dita ribelli.

Io sto direttamente a piedi nudi, erano un po’ turbati dalla cosa all’inizio, ma se loro stanno senza scarpe perché non posso farlo anche io?

Le altre insegnanti mantengono un certo contegno, questo è vero. Esiste in questo Paese una ben definita scala gerarchica, che prevede che io, insegnante, non devo alzare un dito e loro, studenti, devono spazzare il pavimento, pulire la lavagna, portarmi la borsa. Ma io con i sandali ho caldo, mi piace sentire il pavimento fresco sotto i piedi.

E mi piace sentirmi come loro. Sono belli questi bambini, sono bellissimi. Anche i pazzi del venerdì che mi fanno dannare. Vedo tante cose nei loro occhi. Pensavo che i bambini fossero in fondo tutti uguali nel mondo, ma c’è qualcosa in questi volti, una certa innocenza, una dolcezza spoglia e modesta. Un desiderio, piccolo, minuscolo, di apertura, come un timido luccichio lontano che desideri, in qualche modo, raggiungere e svelare.

Io faccio tanti grandi sorrisi, che tornerò a casa con le rughe oltre che con i capelli bianchi, e aspetto che qualcosa da loro emerga. E un pochino, ogni tanto, succede.

Aggiornato il 21/09/23 alle ore 15:01