19 Gennaio 2022

Il cammino di F. si è arenato a Erzurum

Tremila chilometri. In fuga dall’Afghanistan. In Turchia, le loro vite si bloccano in un limbo. Soli, poveri, mal tollerati. Ma non tornerebbero indietro



Dal 2014 la Turchia ospita la più grande popolazione di rifugiati a livello mondiale. Circa 3,6 milioni sono i siriani riparati nel paese, mentre 330 mila sono i profughi di altre nazionalità. I cittadini afgani costituiscono il secondo gruppo più numeroso dopo i siriani, ma sono i principali richiedenti protezione internazionale in Turchia dal 2019.

Dal 2015, quindi da quando il flusso migratorio dalla Siria alla Turchia è diventato sempre più consistente, il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, non ha mai modificato la sua politica in materia, e anche recentemente ha ribadito: «Non lasceremo in mano agli assassini il popolo di Dio, che ha cercato qui da noi rifugio». Nonostante un calo dei consensi secondo alcuni sondaggi, Erdoğan resta il politico più popolare di Turchia, ma le sue dichiarazioni a favore dell’accoglienza dei migranti non trovano un appoggio compatto nemmeno nel suo stesso elettorato. Per questi motivi la nuova ondata di migranti provenienti da un Afghanistan al collasso rappresenta una nuova sfida molto delicata per il capo di stato turco.

Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, nel 2020 erano 125 mila gli afghani richiedenti asilo in Turchia, ma alcuni accademici stimano che si potesse trattare in realtà di oltre mezzo milione di persone. Tale cifra comunque continua ad aumentare dall’estate 2021, parallelamente all’avanzata dei talebani verso Kabul. Per le aumentate misure di sicurezza, si è lentamente ridotto il numero dei migranti afgani che riescono ad entrare illegalmente in Turchia.

Erdoğan, intanto, non cambia la sua retorica riguardo all’accoglienza dei richiedenti asilo, e la utilizza per negoziare con Bruxelles, puntando il dito sulle ipocrisie dell’Unione europea, che di fronte all’ennesima crisi afgana si è dimostrata pronta a chiudersi come una fortezza. «La Turchia non ha l’obbligo di essere il deposito dell’Europa per i rifugiati», ha affermato più volte Erdoğan, potendo contare sull’appoggio dell’ex leader tedesca Angela Merkel, che nei mesi scorsi aveva lodato nuovamente gli sforzi della Turchia, di fatto il paese che ospita più rifugiati al mondo (3,7 milioni di persone, secondo i dati Onu).

Avere un sempre crescente numero di migranti in Turchia può rappresentare però anche un problema. La frustrazione di gran parte della società turca, recentemente esplosa nella violenza con disordini ad Ankara, non riguarda i siriani di per sé ma i migranti in generale. E tra luglio e agosto le lamentele di molti turchi sui social media hanno preso fortemente di mira anche gli afgani arrivati in Turchia.

Altri 43 chilometri di muro
Il presidente Erdoğan, in risposta al flusso migratorio dello scorsa estate, ha costruito altri 43 chilometri di muro (lunghezza complessiva, ormai, 560 chilometri) lungo il confine iraniano e ha aumentato checkpoint, pattuglie e deportazioni nelle principali zone di confine, respingendo gli afgani nonostante le loro richieste di asilo.

Una sezione del muro costruito dalla Turchia lungo il confine con l’Iran


Il 2 novembre, inoltre, 164 migranti afgani sono stati catturati nelle province di Ardahan, Bitlis e Van e poi trasferiti in centri di detenzione. L’accusa è ingresso illegale in Turchia dall’Iran. Ma non si è trattato di un caso isolato: anche lo scorso luglio, in una sola operazione, 1.400 afgani ormai già entrati in Turchia sono stati arrestati e poi respinti dalle guardie di confine.

In occasione del G20 di Roma, Erdoğan aveva affermato: «Non apriremo le nostre porte» a un nuovo flusso, parlando di circa 300 mila profughi afgani già presenti nel paese. E l’allerta delle autorità di governo non cessa; il ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, ha recentemente dichiarato che 2 milioni di afgani presenti in Iran sarebbero «pronti a muoversi» verso la Turchia, mentre circa 2 mila migranti dall’Afghanistan continuerebbero a entrare ogni giorno illegalmente nel paese.

Anche grazie ai pastori
Il viaggio dall’Afghanistan verso la Turchia avviene via terra: é un cammino di circa 3 mila chilometri, della durata complessiva di circa un mese. Una nuova ondata di uomini, donne e bambini hanno camminato attraverso l’Iran negli ultimi mesi. L’assenza di report ufficiali rende difficile sapere con esattezza la composizione di questi flussi: gli afghani attraversano il confine turco da irregolari, riuscendo a eludere i controlli anche grazie ai pastori delle zone di confine, che avvisano i contrabbandieri di uomini dei movimenti delle pattuglie.

Molte sono le donne, vedove di guerra, che sole con i propri bambini hanno intrapreso il cammino, anche in questi ultimi mesi invernali. Cammino che non è affatto facile: violenze fisiche, detenzione e morte sono i tre rischi più comuni di chi si mette in cammino, ma anche mancanza di acqua e cibo debilitano i profughi. Inoltre, soprattutto nei mesi autunnali e invernali, il freddo provoca il decesso dei più fragili, primi fra tutti i bambini.

Principali rotte intraprese per raggiungere la Turchia


L’obiettivo di molti di coloro che si mettono in viaggio però non è arrivare in Turchia: la Turchia è solo una delle tappe del viaggio, almeno per molti. Una volta raggiunte le città entro il confine, come Van o Doğubayazıt, il loro obiettivo sarebbe continuare il viaggio verso l’ovest del paese, per poi transitare in Grecia o Bulgaria, ponti di passaggio verso altre mete europee. L’intero viaggio spesso comprende lunghi periodi di sosta nei vari paesi, per poter raccogliere fondi per le seguenti tappe. A volte però la fase successiva non arriva mai e il paese di transito, come la Turchia, diventa paese di destinazione, soprattutto a causa dei sempre più stretti controlli ai confini, implementati in seguito all’accordo fra Turchia e Ue sui migranti.

La regione di Marmara (Istanbul), le province dell’Anatolia centrale e alcune province sul Mar Nero (vicine all’Anatolia centrale) sono i territori turchi in cui é presente la piú alta concentrazione di profughi afgani.

Vecchi e nuovi arrivati
La Turchia, a partire dai primi anni del 2000, considerato il sempre crescente numero di immigrati, ha varato una serie di riforme politiche e legislative, come l’adozione della legge sugli stranieri e sulla protezione internazionale (Law on Foreigners and International Protection, Lfip) e creato dipartimenti specializzati per ciascun ministero (in particolare Educazione e Salute). Tuttavia, per rafforzare il sistema di aiuti, associazioni internazionali, ong e altre organizzazioni (fra cui Caritas Turchia) cercano, già da diversi anni, di stare al fianco degli afgani, così come di tutti gli altri profughi in Turchia.

Le sfide, soprattutto per i nuovi arrivati, non mancano,
e sono principalmente legate all’accesso al
servizio sanitario, all’educazione, al lavoro, agli alloggi

Le sfide, soprattutto per i nuovi arrivati, non mancano, e sono principalmente legate all’accesso al servizio sanitario, all’educazione, al lavoro (spesso sottopagato), agli alloggi. Ne ha avuto conferma il direttore di Caritas Anatolia, John Sadredin, che insieme a due volontari nello scorso novembre si è recato a Erzurum, in Anatolia Orientale, per incontrare alcuni membri della comunità afgana. Ha conosciuto famiglie, donne vedove con figli piccoli o adolescenti, ma anche ragazzi e uomini soli, che ancora hanno parenti e familiari in Afghanistan. Alcuni fanno parte della nuova ondata migratoria, altri vivono ad Erzurum da diversi anni.

Alle donne va peggio
A. e B. sono due giovani amici, hanno meno di 30 anni e sono arrivati in Turchia da circa 5 anni. Sono coinvolti in un progetto di Caritas Turchia, attivo, grazie a un finanziamento di Caritas Taiwan, nella città di Erzurum, dove è stata aperta una mensa gratuita, che garantisce un pasto al giorno a circa 100 persone. A. e B. ci hanno trovato lavoro, occupandosi della preparazione e distribuzione dei pasti.

A. vive a Erzurum con la famiglia, composta da 8 persone: è entusiasta di poter nuovamente lavorare, poter contribuire a sostenere la numerosa famiglia. B. invece è giunto in Turchia da solo, tutta la famiglia è ancora in Afghanistan: grazie ai risparmi derivati dal lavoro, vuole inviare aiuti ai suoi cari. Ai quali, racconta, come a buona parte della popolazione afgana mancano il pane, le medicine e altri beni primari, insieme a libertà e diritti.

Alle donne naturalmente va peggio: sorelle, mogli, figlie, si sono ritrovate chiuse in casa, con diplomi e certificazioni non riconosciuti, e la possibilità di frequentare la scuola solo fino alla sesta classe, cioè fino a 12 anni. «Mia sorella è andata a studiare in Iran, con l’intenzione di tornare poi in Afghanistan. Adesso sta per laurearsi, ma rimpatriare significherebbe per lei chiudersi in casa, non lavorare, non vedere riconosciuti i suoi studi… Spero che possa raggiungermi, magari trovare un lavoro qua», racconta una donna, che con il marito e i due figli ha raggiunto la Turchia da alcuni anni.

Sorelle, mogli, figlie, si sono ritrovate chiuse in casa,
con diplomi e certificazioni non riconosciuti,
e la possibilità di andare a scuola solo fino a 12 anni

Il progetto a cui A. e B. partecipano verrà affiancato da altri due progetti alimentari (finanziati da privati) che coinvolgono altri rifugiati afgani e che prevedono preparazione di prodotti caseari e da forno. I progetti si rivolgono a chi è presente in Turchia da anni, ma anche a coloro che sono arrivati o che arriveranno. Caritas Turchia preferisce coinvolgere persone anziane, donne vedove e famiglie numerose, selezionando i beneficiari a seconda del grado di vulnerabilità.

Il té, sul tappeto
F. sta lavorando, quando il direttore di Caritas si reca a farle visita. Sta facendo le pulizie nelle case di alcune famiglie turche, sfruttando l’unica mezzora al giorno in cui i suoi 4 figli dormono. Almeno in teoria… Invita il direttore Sadredin a casa sua. Dalla porta dell’appartamento, in uno dei tanti quartieri poveri di Erzurum, un edificio grigio, fatiscente, che sembra sul punto di cadere da un momento all’altro, giunge il pianto dei bambini. All’interno, solo tappeti arredano le piccole stanze fredde. Due piccoli dormono su un materasso, in terra: tossiscono fortemente. Sono malati, ma non possono andare dal dottore. Come la madre, sono infatti rifugiati illegali, non hanno assicurazione sanitaria e le visite mediche sono troppo costose.

F., abbandonata dal secondo marito, è un’immigrata illegale

Il tè, sul tappeto. F. racconta la sua storia e il suo viaggio. Ha perso il marito in Afghanistan: era un soldato, morto in combattimento. Incinta e con bimbi piccoli, ha lasciato il paese ed arrivata in Turchia. Da diversi anni. Ma le difficoltà, per lei come per molte altre vedove afghane, non sono terminate con l’espatrio. I bambini hanno tutti meno di 6 anni, il più piccolo pochi mesi. Ha avuto un secondo marito. Che l’ha lasciata sola, e non le fornisce alcun contributo economico.

* * *

Il viaggio di molti afghani, come F., B. e A., si é fermato in piccoli appartamenti di vecchi palazzi turchi, dove molti vivono da 4 mesi o da 4 anni, non senza difficoltà. «Non riesco a pagare l’affitto. E anche riscaldare casa é troppo costoso», raccontano in molti. Alcune famiglie scelgono addirittura di vivere assieme, per dimezzare i costi.

Stufe a carbone riscaldano i piccoli appartamenti. E con la crisi delle materie prime che è in atto i prezzi del carbone, come quelli degli affitti, sono saliti alle stelle. Nelle case dei rifugiati si ripete così sempre la stessa situazione: un odore forte e un’aria asfissiante aleggiano nell’unica stanza calda, quella con la stufa, dove vengono sempre messi gli ospiti. Carbone, ma soprattutto legna e normali rifiuti fungono da combustibile. É normale tossire, é normale avere mal di testa, se non vi si è abituati. Si sente il bisogno di prendere una boccata d’aria, ma le finestre è meglio non aprirle. Fa troppo freddo fuori. Ad Erzurum, al centro di una regione montuosa, è pungente e d’inverno può raggiungere anche i 20 gradi sotto zero.

Bloccati nel luogo d’arrivo
Alle difficoltà economiche, si aggiungono quelle linguistiche, che affliggono soprattutto i profughi della nuova ondata migratoria. Per i giovani adolescenti c’è la scuola, unico canale per imparare la lingua e provare a integrarsi.Non accessibile a tutti, però. «Mio figlio di 13 anni non è stato accettato a scuola», lamenta, senza saperne il motivo, una delle molte madri arrivate da pochi mesi. 

I profughi sono soli, si sentono isolati. La scuola e il lavoro rappresentano gli unici luoghi di socializzazione, ma anche in questi contesti, secondo i loro racconti, sono frequenti i casi di discriminazione. Quando partono si lasciano alle spalle il loro villaggio, le loro amicizie, la loro casa, il loro lavoro. Tutto. Cercano una vita migliore, un futuro per i loro figli. Quando arrivano in Turchia, dopo un faticoso cammino, non hanno i conoscenti di una vita su cui fare affidamento. Sogni e aspettative accumulati durante il viaggio sovente crollano, e rimane la solitudine, la tristezza, la delusione: la vita é cambiata, per alcuni aspetti in meglio, ma nessuno di loro si aspettava di scoprirsi emarginato, di avere accesso solo a lavori precari e umili, di non poter mai lasciare la cittadina di accoglienza.

Come gli altri rifugiati, non possono abbandonare
la località a cui vengono assegnati, se non grazie
a uno specifico permesso della polizia

Gli afghani, come altri rifugiati, non possono infatti abbandonare la località a cui vengono assegnati, se non avendo ottenuto uno specifico permesso della polizia; di conseguenza sono costretti a cercare lavoro solo in quella città, senza potersi spostare in luoghi con maggior richiesta di manodopera. Per l’intero soggiorno in Turchia riescono a spostarsi solo poche volte, e condividono questa sorte con altri rifugiati, siriani, o iracheni.

Tappeti, per uscire dall’isolamento
Molti dunque finiscono per sentirsi soli, non ascoltati, dimenticati: per questo Caritas Turchia cerca di promuovere il loro inserimento lavorativo e di creare piccoli gruppi di lavoro, che diventano centri di condivisione, dove non solo si possono imparare nuove cose, ma anche ritrovare un senso di appartenenza, di calore, di amicizia.

Caritas Anatolia ha dunque avviato ad Erzurum un progetto di produzione di tappeti artigianali con un metodo antico di tradizione afgana, che attualmente coinvolge circa 7 giovani ragazze e una donna adulta, loro insegnante. Il progetto é nato dall’ascolto e dalla relazione con le persone, dopo diverse visite, raccogliendo le idee ed esigenze, per cercare di sfruttarne le potenzialità creative.

Laboratorio di tappeti finanziato da Caritas Anatolia a Erzurum

Tessere tappeti con il telaio non é un lavoro semplice, né breve. In 4 ore si creano circa 5 centimetri di tappeto. «Ti piace?», chiediamo a una partecipante. «No – è la risposta secca e onesta –. Vengo qua solo per portare a casa un po’ di soldi».

Le altre ragazze del gruppo non rispondono, ma ad alcune non dispiace. Per lo meno, una volta a settimana possono lasciare la casa, imparare qualcosa, aiutare la famiglia e – perché no? – fare nuove conoscenze, uscendo dalla bolla di isolamento cui sono costrette.

Il facchino laureato
Le difficoltà economiche e nel trovar lavoro non riguardano naturalmente solo donne e vedove provenienti da località remote dell’Afghanistan, che mai hanno svolto una professione. Anche alcuni giovani uomini, nonostante abbiano studiato, faticano, a causa del loro status da irregolari, a trovare impieghi che permettano loro una certa stabilità economica.

«Tutti i miei sogni e le mie aspettative sono crollate al mio arrivo – racconta un giovane che ha oltrepassato i confini 5 anni fa –. Mi sono laureato qua in Turchia, ma è stato inutile… Faccio il facchino e non credo riuscirò a trovare un lavoro migliore…».

Lavorano principalmente nei settori edilizio,
dei trasporti e industriale, ricoprendo
i ruoli più umili. E sono spesso sottopagati

I rifugiati lavorano in effetti principalmente nel settore edilizio, dei trasporti e industriale, ricoprendo però le professioni più umili. E sono spesso sottopagati. O pagati irregolarmente. É comune a molti lavorare un mese, poi magari rimanere un periodo senza paga.

Anche al lavoro, così come a scuola, gli afgani sono vittima di discriminazioni, conseguenza del crescente astio nei confronti degli stranieri, fomentato dal governo e in generale dal clima sociale presente in Turchia.

Tuttavia, la situazione per i rifugiati in Turchia continua a essere migliore rispetto a quella cui sono costretti in altri paesi, come raccontano loro stessi. «Ho vissuto in Iran per molti anni, là ci sono una forte discriminazione e razzismo nei confronti di noi afghani. Non ci danno le carte di identità. Per questo sono venuta in Turchia. Ho un figlio e nonostante le difficoltà nel trovare lavoro, qua la situazione è migliore», sostiene una giovane donna che vive a Erzurum. La vita da rifugiato, in Turchia, è tutt’altro che un paradiso. Ma nonostante le difficoltà e le disillusioni patite durante il viaggio, all’arrivo e quelle che persistono, molti si rimetterebbero in cammino.

Aggiornato il 20/01/22 alle ore 18:24