«Conoscere l’altro è conoscere noi stessi»
Sono giovani che scelgono di vivere e operare un anno in Paesi feriti dalle piaghe della guerra, della povertà e delle calamità naturali. Lo fanno aderendo al progetto Caschi bianchi, una delle proposte di servizio civile all’estero. Paolo Castelli, romano, 28 anni, è stato per conto di Caritas Italiana in Bosnia Erzegovina.
Paolo, ci racconti un po’ chi sei e perché hai scelto di fare il servizio civile all’estero come casco bianco?
«Ho vissuto la mia esperienza con il servizio civile a Sarajevo, la capitale della Bosnia Erzegovina. Sono stato lì per un anno. L’ho scelta perché coniugava i miei studi – sono laureato in storia con specializzazione in storia dell’Europa orientale – con le mie varie esperienze di volontariato portate avanti con i migranti».
Descrivici la tua esperienza in Bosnia: a quali servizi ti dedicavi e in quale realtà operavi?
«Proprio a Sarajevo avevo la possibilità di prestare servizio in un centro giovanile, Giovanni Paolo II, che si occupa di promuovere il dialogo tra i giovani di diverse etnie che compongono la Bosnia Erzegovina attraverso attività giovanili, sportive e culturali. Ero impegnato anche nel campo profughi di Ušivak, alla periferia di Sarajevo, uno dei punti focali della Rotta Balcanica. All’interno di questo centro la Caritas, grazie a una donazione di Papa Francesco, ha aperto un social corner, uno spazio di socializzazione, di interazione. Un angolo di umanità all’interno dei complicati campi profughi che popolano la Rotta Balcanica. In questo spazio mi occupavo di offrire assistenza psico-sociale alle persone in transito lungo la Rotta Balcanica, sia attraverso la distribuzione del tè – non solo come bevanda per riscaldarsi un po’, ma anche come momento di incontro e socializzazione per i migranti stessi – sia mediante varie attività, come corsi di italiano, sport, giochi da tavolo, momenti di conversazione, pensati proprio per facilitare l’incontro e il dialogo con le persone in transito nei Balcani».
Papa Francesco ai giovani: «È il compito più arduo e affascinante che vi è consegnato: stare in piedi mentre tutto sembra andare a rotoli; essere sentinelle che sanno vedere la luce nelle visioni notturne; essere costruttori in mezzo alle macerie, … essere capaci di sognare, e questo per me è chiave: un giovane che non è capace di sognare diventa vecchio prima del tempo».
Quali frutti ha portato nella tua vita questa esperienza?
«Questa esperienza ha portato tantissimi frutti nella mia vita. Innanzitutto mi ha permesso di vivere a Sarajevo, che era uno dei sogni della mia vita. Poi mi ha permesso di tradurre la conoscenza di quel contesto da un lato più teorico di studi a uno più “pratico”, di esperienza quotidiana e di vissuto. Questo vale sia per la Bosnia che per la Rotta Balcanica. Ho avuto finalmente la possibilità di vedere cosa si “cela” dietro ai libri. Questo è stato già di per sé impagabile. Ma in generale ho vissuto proprio un anno di educazione alla pace. Sia la storia della Bosnia Erzegovina che la storia delle migrazioni si intrecciano con i fenomeni bellici che purtroppo caratterizzano il periodo storico che stiamo vivendo, oltre che con le catastrofi climatiche e le varie problematiche per le quali molte persone nel mondo sono costrette a migrare. È stato un approfondimento pratico di tanti anni di studio».
Che cosa diresti a un giovane che vorrebbe fare la stessa scelta?
«Consiglio vivamente l’esperienza del servizio civile, che sia universale o nazionale, per tantissimi motivi. Principalmente perché credo molto nella necessità dell’individuazione, dell’autoconoscenza di ciascuno di noi. Ritengo che la possibilità che il servizio civile ti offre di entrare in contatto con le marginalità, le diversità, le fragilità di alcune realtà possa costituire proprio un momento fondamentale di autoconoscenza. Entrando in contatto con le diversità, le fragilità, le marginalità si ha modo di accedere alle proprie parti più fragili, più marginali, più diverse. E dunque conoscersi meglio. Conoscere l’altro significa conoscere sé stessi e credo che il servizio civile in quest’ottica sia un’esperienza fondamentale».
Papa Francesco ai giovani: «Abbiate sempre gli occhi rivolti al futuro. Siate terreno fertile in cammino con l’umanità, siate rinnovamento nella cultura, nella società e nella Chiesa. Ci vuole coraggio, umiltà e ascolto per dare espressione al rinnovamento».
Dopo l’esperienza del Servizio Civile come è cambiata la tua vita?
«Ho fatto il servizio civile con Caritas Italiana. E poi… non mi sono allontanato molto: sono passato alla Caritas diocesana di Roma, poiché mi è stata offerta l’opportunità di collaborare come tutor all’interno del progetto sull’emergenza Ucraina di Caritas Roma. Un progetto, questo, che si occupa dell’accoglienza degli ucraini che stanno arrivando in Europa, in Italia, in questo caso a Roma, a seguito del tragico evento della guerra. Da operatore con Caritas Italiana impegnato nel servizio civile sono diventato quindi operatore della Caritas diocesana di Roma. Onestamente non so se il Terzo settore sarà la strada della mia vita per sempre. In questo momento sicuramente lo è e, al netto delle tantissime difficoltà che questo mestiere comporta, sono felice di continuare a operare in questo ambito».