Le guerre che non finiscono
“War is over!”, scriveva John Lennon. Ma per chi? La fine della guerra nella ex-Jugoslavia, la “missione compiuta” di George W. Bush dopo la “presa” di Baghdad da parte degli americani nel 2003, la destituzione dei talebani dal governo dello stato dell’Afghanistan nel 2001 o le discussioni di carattere geopolitico e di strategia militare sulla guerra in Ucraina e in Medio Oriente.
Chi conosce questi contesti sa bene che non è così. La stessa amara verità che si svela attraversando Malakal, città del Sud Sudan dove dal 2013 al 2019 si è consumata una guerra feroce che ha generato centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e rifugiati, distruzione e sofferenze immani. Una guerra che non ha mai avuto gli onori della cronaca nella gran parte dei media italiani neanche nei suoi momenti topici, figuriamoci dopo cinque anni dalla sua “conclusione”.
Di quella guerra Malakal, come tutto il Sud Sudan, porta ancora segni evidenti e indelebili. Sfollati che da allora non sono più tornati nelle loro case rase al suolo e che vivono in campi divenuti veri e propri slums dove la vita scorre con l’unico obiettivo della sopravvivenza. Scuole e università abbandonate e mai più riattivate, vite e futuro spezzati.
Eppure la guerra è finita e il nemico è scappato. Ma per chi la subisce il nemico è solo chi la guerra la decide, la fa, la paga o ne trae profitto.
La guerra continua per la donna mamma dei due gemelli nati in un campo profughi sulle rive del Nilo, continua in chi da dieci anni vive nei siti per sfollati come quello alle porte di Malakal, dove le fogne sono a cielo aperto e si rischia ogni giorno di morire di tifo o colera, la guerra continua per chi non ha altra possibilità che vivere di aiuti umanitari.
Per tutti loro le guerre non sono quelle raccontate dove ci sono vincitori e sconfitti, territori conquistati o perduti, strategie militari, analisi geopolitiche, ma sono le loro stesse vite.
fine
Aggiornato il 31/10/24 alle ore 09:25