01 Giugno 2025

Cittadinanza è partecipazione

Don Marco Pagniello: «Dimezzare i tempi per la cittadinanza un atto di giustizia, dignità e inclusione»

«L’ottenimento della cittadinanza in tempi congrui da parte di donne e uomini che contribuiscono con il loro lavoro al benessere dell’intera collettività, corrisponde al riconoscimento della dignità delle persone». La presidenza di Caritas Italiana si è espressa con queste parole sul referendum dell’8-9 giugno sulla cittadinanza, forte di una lunga esperienza di integrazione vissuta ogni giorno sul campo dai circa 85mila volontari presenti nella rete delle migliaia di Caritas parrocchiali che fanno capo alle 217 Caritas diocesane. Fari dell’organismo pastorale della Cei sono i quattro verbi di papa Francesco per i migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Approfondiamo il tema referendario con don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana.

Cosa pensa del referendum che vuole in sostanza dimezzare i 10 anni previsti dalla legge del 1992 per ottenere la cittadinanza?

È un’iniziativa cui guardiamo con favore perché rappresenta una misura necessaria per stare al passo coi tempi. L’Italia del 2025 non è quella del 1992, il fenomeno migratorio è cambiato. Se trent’anni fa si pensava a un’immigra zione temporanea, oggi parliamo di persone che vivono stabilmente tra noi, lavorano, pagano le tasse, crescono i figli, mettono radici. Oltre cinque milioni di stranieri sono parte del nostro tessuto sociale. Più di un milione sono minori, molti dei quali nati in Italia. Ma per la legge restano stranieri, come se la loro appartenenza fosse sospesa. La Caritas ogni giorno incontra volti, nomi, storie. Persone che vivono un’integrazione di fatto che attraversa le relazioni e si nutre del desiderio di partecipazione. Non riconoscerlo significa alimentare l’esclusione e trasmettere un messaggio pericoloso: “Tu non appartieni”. È una ferita per loro e per noi perché mina coesione e fiducia reciproca. Nel Deuteronomio (10,19), Dio ricorda al popolo d’Israele: «Amate dunque il forestiero poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto». Invito che vale anche per noi. Come comunità cristiana siamo chiamati a generare un futuro di speranza in cui nessuno si senta invisibile.

Don Marco Pagniello (Avvenire/Siciliani)

Non c’è troppa disinformazione sul quesito? Ad esempio se dovesse vin cere il Sì, chi sarebbero i beneficiari?

C’è effettivamente molta disinformazione e veri e propri pregiudizi. Ad esempio, un luogo comune è che la cittadinanza si ottenga soprattutto per matrimonio con un italiano. Invece i dati sulle acquisizioni, che, come Caritas, ogni anno commentiamo nel Rapporto Immigrazione, attestano che il matrimonio è la modalità più residuale: il 45% dei nuovi cittadini la ottiene attraverso la residenza da oltre 10 anni, di mostrando un reddito, l’assenza di condanne, la continuità del soggiorno. Ottenuta la cittadinanza, i genitori possono trasmetterla ai figli e sono i provvedimenti di estensione della cittadinanza da genitore a figlio a prevalere sulle altre modalità (46%); mentre i matrimoni costituiscono appena l’8,8% dei motivi di rilascio della cittadinanza. Pertanto, a beneficiare di una vittoria del sì che accorcerebbe da 10 a 5 anni il periodo di residenza regolare e continuativa (rimarrebbero gli altri obblighi: da quelli reddituali all’assenza di condanne alla conoscenza della lingua italiana) sarebbero in primis i figli minori dei cittadini stranieri integrati nel tessuto sociale che hanno ricevuto il beneficio e lo trasmettono.

Con un tempo più breve di acquisizione della cittadinanza e una maggiore integrazione quali cambiamenti sociali prevedete?

La cittadinanza contribuirebbe a superare discriminazioni e barriere culturali facilitando l’integrazione nei quartieri, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. Riconoscerla alle persone che vivono e lavorano nei nostri territori da un ragionevole periodo di tempo, come sono i cinque anni di residenza continuativa e regolare previsti dal referendum, sarebbe un atto di giustizia verso chi contribuisce al bene comune. Molti lavorano, pagano le tasse, si prendono cura degli anziani, partecipano alla vita comunitaria, ma non hanno pieno accesso ai diritti civili e politici, sono esclusi dalle misure di welfare e discriminati. La cittadinanza garantirebbe piena uguaglianza di diritti ai loro figli nati o cresciuti in Italia con un impatto diretto sull’accesso all’università, ai concorsi pubblici, alle borse di studio e quindi al la mobilità sociale. Ne beneficerebbe la coesione sociale in quei contesti educativi in cui interagiscono i minori, la scuola in primis. In fondo, ciò che si propone è una trasformazione del nostro sguardo: da “ospiti” a membri attivi di una comunità. È lo stile della fraternità evangelica.

Tra le persone che la Caritas aiuta nelle parrocchie, più della metà sono stranieri. Come cambierebbe la loro vita diventando cittadini italiani?

Significherebbe, per tante persone che incontriamo nelle parrocchie e nei centri Caritas, diventare visibili, essere riconosciuti, protetti. Passerebbero dalla precarietà alla possibilità concreta di fu turo. La cittadinanza darebbe loro stabilità nella sanità, nell’istruzione, nel lavoro, nell’accesso alla casa. E toglierebbe quel peso continuo legato a scadenze burocratiche, documenti provvisori, rinnovi a rischio che spesso generano ansia, insicurezza, frustrazione. Tutto ciò ha effetti profondi anche sulla dimensione interiore: progettare il futuro diventa possibile quando si è riconosciuti nel presente. La comunità cristiana non può ignorarlo. La salute mentale, l’autostima, la progettualità familiare sono parte integrante di una cura pastorale che si prende a cuore l’intera per sona, creata a immagine di Dio e degna di essere accompagnata nel suo cammino. “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35) non è un invito generico al la bontà, ma un criterio di giudizio sulla nostra umanità e la nostra fede.

In questo modo, sostengono i contrari al referendum, si svende la cittadinanza italiana. Ma qual è il significato di questo concetto oggi?

Parlare di cittadinanza con la stessa accezione di inizio ‘900 significa non essere immersi nel nostro tempo. Ci troviamo in un mondo profondamente interconnesso e anche gli stili di vita hanno abbattuto molte barriere che un tempo definivano le appartenenze. La cittadinanza non può più basarsi solo sulla difesa dei confini o su una visione chiusa e identitaria. Dobbiamo scommettere sull’incontro, sul dialogo, sulla capacità di costruire inclusione, mediare conflitti e riconoscere nell’altro un valore. Essere cittadini oggi significa riconoscere l’altro come parte del proprio destino e partecipare al bene comune con spirito di servizio. Vale anche per chi, nato altrove, ha scelto di vivere tra noi, lavorare, educare i figli, costruire legami.

In Italia continuiamo a concedere la cittadinanza per ius sanguinis, in modo restrittivo in un Paese in crisi demografica. Questo ha ancora senso?

Sicuramente è necessario intervenire per aggiornare la legge rendendola più giusta e aderente ai tempi. Questo ampliamento potrebbe rappresentare anche una risposta concreta alla crisi demografica. Lo ius sanguinis è stato finora il criterio dominante, ma non sempre ha rispecchiato la reale partecipazione delle persone alla comunità. Ed è su questa, invece, che dobbiamo puntare. Anche dal punto di vista cristiano, non è il sangue che affratella, ma l’amore condiviso, il cammino vissuto insieme. Gesù stesso lo dice nel Vangelo: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). La cittadinanza è e deve restare un concetto ampio, ma lo squilibrio attuale tra criteri di accesso è evidente e non rispecchia la realtà.

Potrebbe essere l’occasione per metter mano anche alla questione della cittadinanza per i minori e alla legge Bossi-Fini?

Assolutamente sì. Come Caritas, da tempo sottolineiamo l’urgenza di affrontare in modo più equo e lungimirante il tema della cittadinanza per i minori. In particolare, abbiamo sostenuto l’introduzione dello ius scholae, ovvero la possibilità per i minori stranieri che abbiano completato un ciclo di studi in Italia di accedere alla cittadinanza prima dei 18 anni. Intervenire su questo fronte è fondamentale, perché la scuola, con la famiglia, è uno dei principali luoghi di integrazione sociale. Se un bambino cresce, studia, gioca, sogna in Italia, è lì che sta mettendo radici. È lì che diventa parte di una comunità. Non riconoscerlo significa negare l’evidenza, ma soprattutto ferire un senso profondo di giustizia. Se riusciamo a far sentire i minori accolti e riconosciuti dove vivono e crescono, sarà più facile che sviluppino un senso di appartenenza e una cittadinanza partecipata e attiva.

* Da Avvenire, 1.6.2025

Aggiornato il 01/06/25 alle ore 12:10