Accoglienza, forza che libera

Gli amici di "Scarp de’ tenis", giornale di strada e progetto sociale, si raccontano in questa rubrica. È la volta di Marcello, che ha scoperto l'antidoto all'abbandono

All’inizio è l’abbandono. Non so bene come spiegarlo a chi non l’ha mai vissuto. Assomiglia a una sensazione di rinuncia totale, a una completa negazione di sé. Comincia piano piano, si insidia dentro di te come un parassita, e velocemente ti cattura. Ti fa dimenticare di te stesso, della tua salute e del tuo aspetto, ma anche dei tuoi amici e del prossimo. Ti risucchia nel suo vortice nero e ti convince che nulla ha più senso, neanche la tua vita. Ripeto, non è facile da spiegare a chi non l’ha vissuto, e forse neanche a se stessi. Tuttavia, ancora oggi, dopo tanti anni che ne sono uscito, sento ancora in bocca quel sapore di vuoto e disgusto che ho masticato per così tanto tempo.

Dopo il licenziamento non sono più riuscito a trovare un lavoro stabile e mi ero convinto che in questa società, quelli come me, servissero a ben poco.

Così decisi che non valeva più la pena riprovarci, e allora addio alla mia casa, a mia moglie, agli amici, al mio lavoro da imbianchino.

Vent’anni di strada sono stati il risultato, e al tempo stesso la causa, di questo mio malessere.

Durante quegli anni non riuscivo a trovare la forza per fare niente. Ho iniziato a girare l’Italia, dormendo sui treni e nei dormitori che mi ospitavano, senza riuscire tuttavia a creare legami duraturi con nessuno. Abituarsi alla solitudine in questi casi è un’arma a doppio taglio. Se da un lato è una corazza da vestire per proteggersi da quello che c’è fuori, dall’altra ti rende diffidente verso le altre persone e ti frena dal chiedere aiuto. La diffidenza, poi, si nutre delle difficoltà del vivere in strada. Non dimenticherò mai quella notte in cui, mentre dormivo vicino al centro di Firenze, mi rubarono le scarpe. Ecco, in quel momento pensai che se anche i poveri rubano tra loro, davvero non c’è più speranza.

Fortunatamente, però, mi sbagliavo. Diversi anni dopo quell’incidente, mentre ero a Milano, venni a conoscenza di un dormitorio in zona stazione Centrale: il Rifugio Caritas. Quello che pensavo essere un dormitorio come gli altri si è rivelato molto di più. Mi piacque tutto fin da subito: la cura degli ambienti, la gentilezza degli operatori, la bontà del cibo.

Durante il mio soggiorno al Rifugio capii che c’era un antidoto all’abbandono: l’accoglienza.

L’accoglienza funziona come l’abbandono, però al contrario, per questo è l’antidoto! Inizia da piccoli gesti, un piatto caldo, un sorriso, due parole scambiate; e arriva presto a riempirti il cuore di una gioia nuova. Una gioia che non può rimanere chiusa in te, e che deve essere per forza condivisa. Per questo ho iniziato a lavorare per “Scarp de’ tenis”.

Sentivo dentro di me la necessità di contribuire a raccontare le difficoltà della vita di strada e a testimoniare la forza emancipatoria dell’accoglienza.

Questo mio impegno è durato quasi vent’anni, e in primavera sono riuscito finalmente ad andare in pensione. Quello che auguro è un po’ di luce per chi, come me un tempo, dentro di sé ha solo il buio.

Archivio rubrica “Di vite e di strade”

Aggiornato il 17/05/24 alle ore 14:08