Se l’online amplifica il razzismo

Con le piattaforme social i discorsi di odio e il razzismo hanno trovato un terreno fertile per la loro diffusione

Nei due precedenti articoli ho affrontato gli argomenti dei discorsi d’odio sui social e del concetto di “razza” e razzismo. Sebbene alcune persone li considerino temi piuttosto delicati e difficili da trattare, non si può far finta che non esistano.

Anzi, con l’emergere delle piattaforme social negli ultimi due decenni e il loro tasso di crescita esponenziale (in numero di utenti e di reddito), si osserva che i discorsi d’odio e il razzismo hanno trovato un terreno fertile per la loro diffusione. In effetti, anche se molte persone ancora si rifiutano di parlare di razzismo o girano il viso facendo finta che sia un problema di qualcun altro,

purtroppo il fenomeno del razzismo continua a verificarsi ogni giorno sia in Italia che altrove.

In questo contesto, apprezzo l’idea difesa dal professore di Geografia sociale, Alastair Bonnett, che nel suo ultimo libro “Multiracism: Rethinking Racism in Global Context” scrive che il razzismo è un problema mondiale: dal Marocco alla Cina, dal Brasile all’Indonesia, il razzismo viene discusso e contestato. Il razzismo ha una storia variegata, con molteplici radici e percorsi.

Da questo ragionamento si osserva che una delle principali vie di propagazione del razzismo nell’attualità è rappresentata dalle onnipresenti piattaforme social. In questo senso, esse possono essere considerate come una sorta di potenti macchine di trasformazione dei discorsi (vedi figura sotto). Da un lato, le persone entrano con le loro ideologie razziste e discriminatorie nei confronti dell’altro (cioè di chi è considerato “diverso” o “deviante”). Dall’altro lato, la macchina espelle discorsi d’odio amplificati con un’ampia portata che può persino influenzare il comportamento intollerante delle persone nel “mondo reale”, cioè nell’ambiente offline.

Social come macchina di amplificazione di ideologie di pregiudizio © Luiz Valério P. Trindade

Questo ragionamento è in linea con l’idea sostenuta dai professori Beth Kolko, Lisa Nakamura e Gilbert Rodman nel libro “Race in Cyberspace”, in cui gli autori spiegano che «la razza è importante nel cyberspazio proprio perché tutti noi che trascorriamo del tempo online siamo già modellati dai modi in cui la razza è importante offline, e non possiamo fare a meno di portare con noi le nostre conoscenze, esperienze e valori quando ci colleghiamo».

In altre parole, queste riflessioni rivelano in primo luogo che gli ambienti online e offline non sono separati l’uno dall’altro, ma sono invece intrinsecamente connessi. In secondo luogo, che le credenze, i valori e le ideologie nutriti dalle persone offline si riflettono nelle loro manifestazioni nell’ambiente online. In questo caso, se nutrono idee razziste, le riprodurranno online e, poiché la tecnologia digitale fornisce loro una sorta di megafono,

si sentono autorizzati a essere ancora più aggressivi e “coraggiosi” di quanto sarebbero nelle interazioni faccia a faccia.

Si percepisce quindi che la radice del fenomeno risiede nelle idee distorte e antiquate delle persone, che giocano un ruolo importante nello sviluppo di una serie di stereotipi negativi rispetto ai membri dei gruppi etnici minoritari.

In questo contesto, nel 2017 è girato un controverso post sui social, una provocazione del giornalista Luca Bottura, che raffigurava l’attore americano Samuel L. Jackson e l’ex-giocatore di basket “Magic” Johnson come due migranti che non fanno nulla e sprecano i benefici sociali offerti dal governo italiano ai migranti extracomunitari (foto sotto). Dopo che il post è diventato virale, l’autore si è fatto avanti sostenendo che il post intendeva essere ironico. Tuttavia, questo non spiega perché spesso le persone nere sono soggette a certi tipi di discorsi impregnati di stereotipi negativi, raffigurandole solo come persone bisognose di sostegni sociali e disoccupati. E perché sarebbe così divertente e ironico?

Un altro esempio che segue simili immagini stereotipate negative comprende un post su Twitter del 2020 che mostra Emma Marrone a fianco del cantante americano Kanye West (foto sotto), in cui un utente ha ipotizzato che per il fatto di essere nero, lui era un uomo affamato, incapace di permettersi di pagare per un piatto di cibo. Il post ha trasmesso il seguente messaggio: «Emma offre la cena a un ragazzo nero dato che quest’ultimo non ha abbastanza soldi per permettersi da mangiare». Cioè, non riconoscere Kanye West è una cosa che può succedere se la persona non ha familiarità con l’artista. Tuttavia, perché ipotizzare che per il fatto che è nero lui è per forza povero e affamato?

Un altro caso è quello di una campagna pubblicitaria di un grande rivenditore di moda per giovani di origine tedesca, con una forte presenza di mercato in Italia, che nel 2019 ha usato modelli neri maschi e femmine. Le pubblicità sono state pubblicate sui canali social del rivenditore e hanno ricevuto una varietà incredibile di commenti negativi come: a) «Addio. Avete perso un cliente. Mai più soldi a chi preferisce i neri»; b) «Vendeteli in Africa»; c) «Facciamo così: appena divento nero la compro, nel frattempo ti blocco»; d) «Non c’era un’italiana disponibile per la pubblicità?»; e) «Se volete vendere in Italia mettete donne italiane». Cosa rivelano questi tipi di commenti?

Il messaggio sottostante è la negazione della legittimità delle persone nere a rappresentare qualunque bene di consumo e ancora di più a rappresentare l’Italia.

Tuttavia, quale Italia? L’Italia bianca naturalmente. In fin dei conti queste ideologie sono alimentate da modi di pensare coloniali, ancora radicati nella mentalità di molte persone e che emergono liberamente sui social.

Il quadro rivelato attraverso questi tre esempi è abbastanza problematico perché la ripetuta esposizione di certe rappresentazione sociali sui mezzi di comunicazione di massa (compresi i social) può portate alla loro accettazione da parte della società come espressione accurata della realtà.

Pertanto, come mostrato nella figura della “Potente macchina per le trasformazioni dei discorsi”, le persone che nutrono questo tipo di idee discriminatorie e stereotipate sugli “altri” utilizzano i social per amplificare la propria voce e raggiungere un vasto pubblico. Inoltre, questo ragionamento ricorda le parole del medico Andi Nganso in un’intervista su La7 pochi anni fa. Quando gli è stato chiesto se pensava che l’Italia fosse un Paese razzista,

Andi Nganso ha risposto: «Non credo che l’Italia sia un Paese razzista. Quello che credo è che le persone razziste trovino un megafono per diffondere la loro voce».

Dunque, in questo senso, i social svolgono esattamente il ruolo di un potente megafono.

Archivio rubrica “Connessi e cattivi”

Aggiornato il 03/01/24 alle ore 11:52