Domande cretine tipo: “Come stai?”

Oggi siamo abituati a parlare di trend: qual è il trend che funziona di più? Di cosa dobbiamo parlare? Lo storytelling è fondamentale, si dice.
È una domanda che ci siamo posti anche noi, sulla quale continuiamo a lavorare e formarci. A volte però pare uno smacco per noi, epigoni degli evangelisti, non essere all’altezza della situazione, intendo: abbiamo a disposizione il libro più potente mai scritto (così disse anche quel pazzo di Nietzsche), ma oggi non siamo più in grado di arrivare così in alto. Ci mancano le parole? No, quelle no, a volte sono addirittura troppe (papa Francesco ammoniva i parroci a contenere le prediche a massimo 8 minuti).
Un recente caso editoriale però – secondo “Internazionale”, «il miglior esordiente di cui non avete mai sentito parlare» – potrebbe illuminarci: “Storia di mia vita” di Janek Gorczyca (Sellerio 2024). No, la preposizione articolata (della) non c’è, ma è giusto. È solo l’assaggio di un testo scritto in una lingua cruda, unica e travolgente.
«Questo sarà un breve racconto di mia esperienza sulla vita per la strada. Tutto comincia nel 1998 di ottobre, io sto in una stanza a Campo dei fiori, contratto di lavoro scaduto, permesso di soggiorno uguale, ho un milione e mezzo di lire in tasca, e penso come riprendere tutto, ma non è facile».

Siamo abituati a intervistare, raccontare di qualcuno, di qualcosa, montare reels; difficilmente però riusciamo a rendere protagonisti le persone che in gergo Caritas chiameremmo beneficiari. Penso che quando papa Francesco parlava di opzione preferenziale dei poveri parlava proprio di un’inversione dei ruoli: siamo in grado di metterci veramente in ascolto? Fare domande vere perché ci si mette in gioco in prima persona?
«Per me due panini a settimana e domande cretine tipo “come stai” sono una umiliazione».
Quante volte l’ascolto degli operatori sociali (nel libro di Janek, gli “operatori” non hanno nome: ci si riferisce loro come “quello di Comunità”) sono schiacciati sui bisogni, con domande che presuppongono risposte utili al servizio e non alla persona? Avremo mai il coraggio di chiedere, ad esempio, come sta la donna o l’uomo amato? E raccontarci a nostra volta? Anche in “Storia di mia vita” c’è una storia d’amore, quella con Marta: «Settembre riprendo lavoro, Marta perde un po’ di ore di lavoro, non vogliamo che va come badante perché questo significa che di nuovo ci vediamo due volte a settimana».
Non è così anche per il romanzo della nostra vita? Strappare alla quotidianità qualche ora in più con il nostro amore?
A livello comunicativo significa dare non tanto spazio e copertura agli eventi, ma ai testimoni. Provare a unire la bocca alla verità. Senza romanticismo, centoquarantaquattro pagine incentrate sulla vita: «Un’antiretorica che gli ha permesso di evitare due trappole molto diffuse oggi, e cioè
l’ossessione per i traumi e un racconto tanto concentrato su di sé quanto poco interessato agli altri, e a quello che si agita nel mondo». (G. Rizzo, Internazionale)
Un libro da leggere, con cui fare a pugni, che quando lo finisci hai un occhio nero, da divorare in un sol giorno con la stessa fame di avventura di Janek: «Insomma decido di vivere sta avventura che poi è diventata storia vera». È il mio desiderio, al pari del suo, che ci rende così vicini, così fratelli; è grazie a questo spirito che i testimoni diventano testimoni anche per noi.
